Sara Canali, oltre il gender gap
«Sogno un mondo in cui le donne possano non avere limiti. In cui nessuno possa dire: no, questo lavoro o questo sport, non fa per te». Sara Canali, founder di SHER, startup per abbigliamento sportivo femminile, è la prova di cosa significhi creare impresa a partire da una missione che va oltre il business. Nata e cresciuta in Alto Adige, a Chiusa, ha capito da piccola cosa fosse il gender gap. L’ha vissuto sulla sua pelle fin da quando le è stato detto che no, non avrebbe potuto giocare da professionista a calcio o a hockey, perché non esistevano (ancora) squadre femminili. O ancora, quando le è stato consigliato di indirizzare diversamente le sue ambizioni professionali perché le sue erano ‘troppo maschili’. «Volevo fare la pilota di aerei, ma era una strada impercorribile per le donne».
La carriera internazionale e lo stop inaspettato
Come spesso accade, però, più sono alti gli ostacoli e più si trova lo slancio per saltare. Così è stato per Sara. Dopo un inizio di carriera nel settore alberghiero, ha incontrato il mondo della moda che l’ha portata a lavorare prima come consulente per la produzione di denim e poi come product manager per The North Face. Una realtà globale che le ha consentito di unire l’amore per lo sport a quello per la natura e per l’abbigliamento. Si è appassionata così tanto al settore che si è diplomata come fashion designer per l’Accademia della Moda. «Ho studiato di notte – confida – ma la curiosità e la voglia di migliorarmi sono state i miei driver principali».
Un impegno che è stato ripagato: Odlo, un gruppo internazionale di abbigliamento sportivo l’ha contattata per una posizione da product manager in Svizzera. «Sono partita subito e ho sposato il progetto completamente, dedicando all’azienda 10 anni». Un periodo in cui Sara è cresciuta diventando responsabile di prodotto, design e innovazione, fino a quando non sono arrivati i 40 anni e il sogno che le era stato proibito da bambina è diventato, finalmente, reale. «Mi sono concessa 6 settimane di ferie, sono volata in Spagna e lì ho preso il brevetto da pilota di aerei. È stato un regalo che ho fatto a me stessa. Il mio modo per liberarmi da tutte le catene che mi erano state virtualmente imposte da piccola», conferma Sara.
E l’adrenalina l’ha accompagnata anche l’anno successivo, per un nuovo volo: quello da mamma. «La maternità è stato davvero il turning point, il punto di svolta, della mia vita», afferma. Sì, anche perché rientrata a lavoro dopo il parto, non ha più trovato il suo posto. O meglio, non come l’aveva lasciato. «Per me l’azienda aveva altri piani, evidentemente, ed essendo diventata mamma, non ritenevano più che potessi lavorare come responsabile». Un compromesso che Sara non ha accettato, tanto da dimettersi.
Donne, lavoro e maternità: il peso della child penalty
La sua è una storia comune a tante donne: solo nel 2020, il 77% delle dimissioni piombate sui tavoli dei datori di lavoro italiane sono state firmate dalle donne. Un trend che è proseguito anche nel 2021: confrontando in modo congiunturale il secondo e il terzo trimestre, le dimissioni sono state più tra le donne (+4.386) che tra gli uomini (-25.915). Motivazione principale: la difficoltà a conciliare vita privata e vita lavorativa. La maternità, del resto, è tuttora vissuta come un ostacolo, tanto da parlare di child penalty: il tasso di occupazione delle donne in età da lavoro passa dal 71% per le donne senza figli al 53% per le donne che hanno almeno un figlio under 6. E stando ai calcoli dell’Inps, il salario lordo annuale delle lavoratrici mamme è inferiore di 5.700 euro rispetto alle lavoratrici che non hanno figli.
Non solo: a pesare sulla carriera delle donne è anche la mancata crescita professionale, la difficoltà a veder riconosciuto il loro impegno in maniera meritocratica, i pregiudizi costanti che rendono impossibile sfondare il famoso soffitto di cristallo. Anche in questo caso, i numeri parlano: in Italia le manager sono appena il 28%, le dirigenti solo il 18%, le amministratrici delegate il 3%, mentre le donne inattive per esigenze di cura sono il 39%. Se a questo aggiungiamo il gender pay gap – ovvero il fatto che a cinque anni dalla laurea, le donne guadagnano il 20% dei colleghi uomini nella medesima posizione – è evidente perché la parità di genere sul lavoro è un tema ancora tutt’altro che risolto.
Reinventarsi, innovando
Lasciato il lavoro, Sara non si dà per vinta e scommette su se stessa, ancora una volta. Lo fa provando a dare forma a un’idea che le era balenata in mente qualche tempo prima: «Lavorando nel mondo sportivo mi ero accorta di quanto l’abbigliamento per donna fosse spesso disegnato e creato senza la giusta attenzione per il nostro corpo. Del resto, è sempre stato pensato da uomini». Così, decide di provare lei stessa a creare qualcosa di diverso.
Si iscrive alla Stanford Graduate School of Business Executive Education e studia le fondamenta dell’innovazione nel business. Finanza, strategia, pensiero critico, ma anche design thinking e business models, innovazione di processo e strategie di negoziazione. Il tutto, con un bambino di tre mesi. Ancora una volta, contro ogni stereotipo e pregiudizio. Al termine del percorso le è tutto chiaro: lascia definitivamente la Svizzera e torna a casa, in Alto Adige. È lì che fonda SHER, la sua startup per abbigliamento sportivo femminile, pensato per essere performante ed elegante al tempo stesso, con capi realizzati in Italia e in Portogallo. Oggi SHER cresce nell’incubatore per startup di NOI Techpark, l’hub dell’innovazione dell’Alto Adige, «un luogo in cui – afferma – ho la possibilità di condividere riflessioni e percorsi. Perché quando sei imprenditrice di te stessa, le decisioni da prendere sono tantissime ogni giorno e il rischio di sentirsi sola è alto». Anche perché Sara coltiva SHER con un’ambizione altissima: «Voglio ispirare le donne a perseguire uno stile di vita attivo, senza limiti. Perché ognuna di noi, ogni giorno, può scrivere la propria storia. Non importa quanto gli altri provino a rendercelo difficile».