Influencer Marketing, quale verità?
Entro il 2025 i brand spenderanno circa 22 miliardi di dollari in Influencer Marketing a livello mondiale. Parliamo di un settore che non conosce crisi, ma in cui continuano a emergere grosse vulnerabilità. C’è posto per l’H-Factor, il fattore umano, nel mondo degli influencer?
Il lato oscuro del mondo degli influencer
Federica Micoli, content strategist e imprenditrice, ex influencer conosciuta come Closette, ha scoperchiato il vaso di pandora sul modello italiano di influencer marketing, con il libro “Confessioni di un’influencer pentita”. Una narrazione autentica e spietata di cosa ci sia dietro lo sfavillante mondo degli influencer, tra storie ipocrite e strategie di crescita poco trasparenti. I retroscena raccontati dalla Micoli rendono bene l’idea di cosa significhi lavorare in un sistema che, secondo l’autrice, nasce per vendere pubblicità e monetizzare, per rendere le persone dipendenti e schiave, eternamente connesse al digitale e costantemente disconnesse dalla realtà.
«Io per prima ho vissuto sulla mia pelle le distorsioni di un mestiere che, se interpretato inseguendo il mito della performance, può diventare tossico: per i creator, per le aziende e per gli utenti. Oggi – spiega l’autrice – il mito delle vite perfette ostentate da molte influencer, sta iniziando a crollare. Infastidisce chi guarda e non porta alle aziende i risultati attesi».
Lo sfruttamento dei lavoratori nascosto dalla cinese Shein
L’influencer marketing potrebbe, quindi, non essere più lo stesso (e, in un certo senso, ce lo auguriamo). Uno dei casi che ha fatto discutere più di recente è quello del colosso cinese Shein. L’azienda di abbigliamento fast fashion – contestata per il suo modello di produzione non sostenibile e per lo sfruttamento dei lavoratori – ha coinvolto alcune influencer per raccontare il brand attraverso una visita all’interno dei siti produttivi. Ma i social sono insorti contro il racconto edulcorato delle influencer che elogiavano la trasparenza del brand e la qualità del lavoro. Ora, come ha fatto notare anche Francesco Oggiano nella sua newsletter, le creator sono state scelte volutamente in una nicchia: non bianche e con un pubblico medio piccolo, dunque, meno abituate ai grandi guadagni delle influencer più cool. Per questo, più vulnerabili. Secondo Oggiano, questa scelta è stata fatta per conquistare il pubblico attraverso la buona fede delle influencer, simbolo di «diversità» ma al contempo poco avvezze alle dinamiche dei grandi brand. Le influencer sono state influenzate da Shein? O erano più consapevoli del previsto?
In futuro meno quantità e più qualità
«In futuro ci sarà sempre meno spazio per creator improvvisati: i brand sceglieranno di collaborare solo con chi ha dei contenuti e delle community reali e gli utenti seguiranno persone dal volto umano con storie vere da raccontare, non personaggi artefatti ma di poco spessore. Questo farà alzare l’asticella dei contenuti: meno quantità e più qualità» – continua Micoli.
Attenzione: non è una questione di budget, ma di serietà e correttezza professionale. Secondo eMarketer, nel 2022, i budget per l’Influencer Marketing sono saliti al 7,5% rispetto al budget totale per il marketing, contro il 6,5% di un anno fa. E nei prossimi tre anni si prevede che la quota possa salire al 12,7%. Le tre parole chiave dell’Influencer Marketing secondo l’agenzia Flu, punto di riferimento del settore, dovranno infatti essere: credibilità, reputazione ed efficacia. Gli influencer selezionati per le campagne dovranno essere in grado di raccontare brand e prodotti con un tono di voce e dei contenuti allineati con i valori e l’immagine dell’azienda.
La sfida sarà allineare il messaggio alla realtà del brand
«Ciò che più preoccupa i brand quando attivano una campagna di Influencer Marketing è il “misalignment”, ovvero l’incappare in creator poco credibili perché portatori di messaggi, dichiarati o impliciti che non si sposano con il brand o il prodotto. Altra fonte di preoccupazione – si legge nell’ultimo report di Flu – è il “discord”, ovvero un disallineamento tra il tono di voce e lo storytelling del brand e quelli del creator».
È bene seguire, quindi, alcune buone regole: la condivisione di un brief, la verifica dei contenuti prima della messa online e l’utilizzo di piattaforme per la brand safety. Oltre, ovviamente, al contratto, il primo e più importante strumento di tutela della reputazione del brand. La Digital Chart, inoltre, indica come e quando l’influencer deve segnalare le diciture “pubblicità”, “promosso da”, “sponsorizzato da” o “in collaborazione con”. Nonostante la Chart sia stata pubblicata nel 2016, sono ancora pochi gli influencer corretti, come ricorda la stessa Micoli, oggi in prima linea per rendere i social un posto migliore. «Dobbiamo imparare a riconoscere chi vuole lanciare fumo negli occhi. Solo così – conclude – eviteremo di farci accecare e renderemo l’influencer marketing una professione dal volto umano».