Che lingua si parla in azienda? Generazioni a confronto
Gli ecosistemi comunicativi non sono statici, ma si evolvono insieme alle persone che ne fanno parte. È quello che sta accadendo oggi, non solo nella società ma anche nelle aziende: la tecnologia e il digitale hanno incrementato la rapidità e semplicità dei flussi, rendendo la comunicazione più immediata, informale e partecipativa. I social media, in particolare, hanno esercitato e continuano a ricoprire un ruolo preponderante nel promuovere una comunicazione bidirezionale e “peer-to-peer”, a discapito di un linguaggio unidirezionale e calato dall’alto, tipico di realtà professionali fortemente piramidali e gerarchiche. I mutamenti linguistici assumono un corso più rapido nel contesto esterno che in quello interno alle organizzazioni, la cui leadership non sempre si dimostra pronta e ricettiva di fronte a tali cambiamenti.
Le conseguenze del remote working
Oltre alle sfide poste dai nuovi canali di comunicazione, le organizzazioni si trovano sempre più a confrontarsi con altri fattori che influenzano le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, come la normalizzazione del remote working e la conseguente necessità di garantire una cooperazione tra risorse dislocate in luoghi e geografie differenti. La compresenza all’interno delle aziende di più generazioni di professionisti non semplifica le cose: la distanza tra questi gruppi non è accentuata solo da aspetti demografici, ma da approcci culturali e codici linguistici differenti che, in molti casi, non risultano ben armonizzati tra loro. Non è dunque così facile trovare un vocabolario aziendale chiaro e condiviso per tutti, ma è fondamentale provarci per assicurare reciproca comprensione e collaborazione, due pilastri portanti per la buona riuscita del lavoro e la soddisfazione di chi vi contribuisce.
Millennial e Gen Z
Un punto di partenza per ripensare il linguaggio delle organizzazioni è l’osservazione e la conoscenza delle generazioni presenti in azienda, soprattutto Millennial e Generazione Z, che costituiscono attualmente una grossa fetta della forza lavoro europea. Si stima che il 30% della forza lavoro a livello globale entro il 2030 sarà costituita proprio dai nati nella Gen Z (1995 -2012) che, rispetto ai Millennial, mostrano caratteristiche proprie, come: una maggiore sensibilità ai temi di inclusione, diversità e responsabilità socio-ambientale; una propensione più spiccata all’utilizzo della tecnologia che utilizzano da sempre anche nella vita privata per intrattenere relazioni online; un bisogno più radicato di fiducia e trasparenza; una ricerca attenta del proprio benessere mentale sia fuori ufficio che in ambiente lavorativo. Il linguaggio aziendale deve tener conto di tali peculiarità, prevedendo contenuti legati a questi argomenti caldi e dimostrando reale impegno per tradurre principi e valori in azioni e comportamenti concreti.
Video verticali e neologismi
Passando invece a stili e formati, la Gen Z predilige la comunicazione visuale e i contenuti video (meglio se verticali), coerentemente con le piattaforme che abitualmente usa, come Tik Tok. Su questi social media spopolano già da qualche tempo video ironici con vere e proprie lezioni di slang della Gen Z per i cosiddetti “boomer”, che spesso ignorano la quantità di neologismi utilizzati dai giovani nel linguaggio di tutti i giorni e di cui bisognerà tenere conto anche in contesti più formali. Un caso emblematico è il termine “slay” che arriva da oltreoceano e letteralmente significa “uccidere”, ma i nativi digitali lo usano per rivolgere un complimento. Interessante, vero?
“Faccine” dai molti significati
Le differenze sul piano linguistico non si limitano al lessico. Un altro aspetto, che non di rado genera confusione ed imbarazzo tra le generazioni, riguarda l’uso delle emoji. Come riporta il Washington Post, in un articolo dedicato proprio al linguaggio intergenerazionale sul posto di lavoro, le generazioni più mature tendono ad usare le “faccine” in senso letterale, mentre quelle più giovani le impiegano in modo creativo, attribuendo ad esse nuovi significati, spesso ironici, che vanno quindi interpretati. Questa diversità è spiegabile dal fatto che gli appartenenti alla Gen Z sono cresciuti comunicando prevalentemente online per via testuale: hanno quindi dovuto sviluppare nuovi modi per esprimere le proprie emozioni, incorporando elementi della conversazione reale, come la mimica facciale e l’intonazione, con l’ausilio di elementi visivi e di un gergo tutto loro.
Testi brevi e tono informale
Un altro ostacolo alla comunicazione è la consuetudine da parte dei colleghi più senior di scrivere grandi blocchi di testo in un unico messaggio. Ricevere contenuti tanto fitti che condensano più richieste rischia talvolta di risultare eccessivamente formale o confuso per i giovani, che sono inclini a separare i pensieri in messaggi distinti e brevi, eliminando la necessità delle maiuscole o della punteggiatura. Su quest’ultima, le generazioni non sempre sono in accordo: prendendo a titolo esemplificativo i puntini di sospensione, quelle più mature tendono a usarli per interrompere o cambiare ritmo al proprio racconto, mentre quelle più giovani non li amano molto e preferiscono inserire i punti esclamativi, anche in sequenza, per esprimere entusiasmo. Anche sul punto a fine frase si sollevano opinioni contrastanti: se i più grandi lo apprezzano, i nativi digitali lo reputano superfluo o addirittura ostile, attribuendo ad esso un forte valore enfatico che potrebbe denotare un senso di rabbia o di fastidio.
Evitare l’effetto “cringe”
Tanti modi diversi di vedere il mondo e di dipingerlo a parole. Un fatto che non stupisce, considerando che il linguaggio è uno specchio potente del pensiero, oltre che esserne condizione imprescindibile: la capacità di pensare è vincolata dalle parole che conosciamo. Cosa si può fare dunque per colmare i gap?
Molti esponenti della Gen Z dichiarano che al momento, per evitare interpretazioni errate o incomprensioni, stanno provando ad adattare il proprio codice linguistico al lavoro, imitando lo stile dei colleghi più senior e attenendosi agli usi “consueti” di emoji e parole note. Di sicuro, in futuro questa non può essere la soluzione definitiva.
Il percorso da compiere è ancora lungo e non c’è una via univoca o predefinita da seguire. Curiosità, empatia ed apertura verso l’altro sono le premesse necessarie per conoscersi e capirsi senza giudizio, trovando un terreno comune di incontro e scambio, ad esempio all’interno di una community aziendale, dove porsi domande in libertà, evitando l’effetto “cringe”.