Lavoro, la consulente Sabrina Grazini: oggi sono i lavoratori a scegliere
«Negli ultimi tre anni il mondo del lavoro è cambiato radicalmente. Oggi, almeno nel privato, sono i candidati a scegliere le imprese e non viceversa». L’affermazione richiama direttamente il saggio di Pietro Ichino, L’intelligenza del lavoro (Rizzoli, 2020), ma fa specie che a pronunciarla sia Sabrina Grazini, giovane consulente del lavoro con base a Brescia. A dispetto dell’età, Grazini è da tempo un nome noto nel settore.
Docente di contrattualistica e Payroll per vari enti di formazione tra cui la 24ore Business School, quest’anno Forbes l’ha inserita nella classifica 30Under30 Italia nella sezione ‘Social Media’ per l’impegno nella diffusione del diritto del lavoro. Sempre quest’anno, il suo studio professionale è stato premiato da TeamSystem tra i ‘100 Best in Class’ per innovazione digitale.
La intercettiamo di ritorno da Roma dove alla Camera dei Deputati ha appena ricevuto il premio Standout Woman Award 2023 ‘per la sua straordinaria capacità di diffondere il diritto del lavoro avendo usato nuove modalità che hanno consentito di raggiungere più persone possibili, aprire le loro menti ed istruirle, contribuendo così ad una società più equa’.
Quanto c’era e c’è bisogno di un nuovo linguaggio per descrivere il mondo del lavoro?
Risposta breve, tantissimo. Soprattutto in materia giuslavoristica dove la legislazione è in continua evoluzione poiché ogni governo, ogni anno apporta dei cambiamenti, ma il linguaggio giuridico utilizzato è di fatto inintelligibile per le persone al di fuori del settore. Il problema è che tutti, dal tirocinante all’imprenditore, devono comprendere che la normativa ha un impatto diretto e concreto nel loro quotidiano. Non si tratta di concetti astratti, quanto di norme che regolano la relazione tra tra il datore di lavoro e il lavoratore e che riguarda, per esempio, il diritto ai permessi, le ferie, il licenziamento, le dimissioni, la possibilità di accedere a bonus o benefit. Così, mi sono divertita a tradurre il linguaggio tecnico con l’obiettivo di far arrivare il messaggio corretto.
Come è cambiato l’approccio al mondo del lavoro da parte dei giovani?
Totalmente. Rispetto a una volta le ragazze e i ragazzi che si affacciano al mercato del lavoro sono più consapevoli, sono molto più curiosi. Il tema del salario è certamente importante, ma guardano anche altri aspetti: se l’azienda dà possibilità di crescita, se mette al centro le persone con piani di welfare aziendale, se viene offerta la formazione, la possibilità di lavoro agile. I giovani mettono insieme una serie di tasselli che prima i datori di lavoro non si aspettavano e arrivano ai colloqui già molto preparati. Da questo punto di vista la forza contrattuale si è come ribaltata, non sono più le aziende a scegliere i lavoratori, ma il contrario.
C’è chi afferma, probabilmente a ragione che lo stipendio è fatto di tanti elementi e non si risolve nel mero scambio prestazione/denaro. Cosa ne pensa?
Sì, vero. Sottolineo che in questo momento c’è grande divario: da una parte il problema del salario minimo, alcune retribuzioni sono molto basse, i contratti pirata purtroppo sono ancora molto diffusi, per non parlare degli stage infiniti, penso che non dovrebbero durare oltre i 6 mesi. Dall’altra invece c’è la sensazione che qualcosa stia cambiando, in meglio. Stiamo parlando di modifiche che non avvengono per scelte politiche, da parte del legislatore, ma sembra che siano determinate da fattori sociali ed economici propri di un mercato che tende a trovare nuovi equilibri al suo interno.
Il risultato è che tutte le aziende devono fare i conti con questa nuova realtà. Anche qui noto una divisione abbastanza netta. Tralasciando le aziende grandi, dove un minimo di benefit e di welfare sono realtà consolidate, le imprese più piccole si stano orientando per offrire ai propri dipendenti fringe benefit e flessibilità. Seguo molte startup e non ce n’è alcuna che non preveda una o più forme di welfare aziendale o di flessibilità in termini di orario e presenza. E le realtà più vecchie si stanno adeguando, anche solo per necessità.
Riscontra anche lei un’attenzione molto alta sui diritti e sulle condizioni generali? I doveri che fine fanno? C’è la consapevolezza da parte dei lavoratori che la prestazione resta centrale nel rapporto con il datore di lavoro?
Difficile trovare un minimo comune denominatore. Forse c’è poca attenzione iniziale sulla ‘resa’ del lavoratore, ma la vita in azienda, di qualsiasi dimensione, alla fine porta naturalmente a considerare il raggiungimento degli obiettivi. Del resto, tutti gli elementi accessori di un contratto di lavoro stanno in piedi se il lavoratore ‘produce’. C’è comunque un divario generazionale, tra i cinquantenni e la generazione Z. Nel senso che la mentalità consolidata del ‘lavorar tacendo’, è in corso di essere soppiantata da uno sguardo più ampio e consapevole sul lavoro. Nella bilancia vengono messi i valori aziendali, il bilanciamento con la vita privata, la crescita professionale e l’accesso a eventuali benefici di cui dicevo sopra.
Dalla pandemia in poi il fenomeno delle dimissioni volontarie è esploso. L’anno scorso (2022) ha sfiorato i 2,2 milioni di posizioni. C’è stata una reazione da parte dei datori di lavoro? Ed è stata corretta?
Il Covid ha cambiato tantissimo, tante aziende del turismo e pubblici esercizi vivevano in un mondo tutto loro. Si è verificato un esodo generalizzato di personale verso l’industria dove le condizioni di lavoro sono migliori. Quelli non torneranno più, ma le imprese di quel settore hanno cominciato ad alzare le retribuzioni, che forse era ora, e iniziando a interessarsi a pacchetti di benefici per i lavoratori.
Sono cambiate anche le relazioni sindacali in questi ultimi anni?
Nelle pmi la relazione è diretta tra il lavoratore e il datore di lavoro, quindi non è cambiato molto. Le imprese di dimensioni più ampie invece hanno aumentato la contrattazione di secondo livello, cioè i premi di produttività. Prima non ricorrevano a questo strumento perché temevano il coinvolgimento strutturale dei sindacati. Ora invece con la tassazione al 5% c’è più motivazione e i vantaggi reciproci. Facilitare questi tipi di accordi e andare su questa strada è corretto. Le aziende che l’hanno intrapresa hanno migliorato le relazioni con i lavoratori e i benefici economici.
Che ruolo hanno i social media nella ricerca di un lavoro, sia per chi lo cerca sia per chi lo offre. Possono essere distorsivi e ingannevoli o addirittura configurarsi come strumenti di controllo indebito?
Da parte dell’azienda è fondamentale essere presenti sui social. Il sito aziendale i candidati praticamente non lo guardano più. Si rivolgono invece a Instagram e Linkedin per verificare e valutare l’azienda, la sua ‘voce’ e il suo stile comunicativo e, soprattutto, come vengono scritti gli annunci di lavoro. Quello è un fattore fondamentale nella decisione di presentare o meno la propria candidatura. Ancora oggi, purtroppo, molte aziende non hanno capito che accanto alla lunga e spesso improbabile lista di requisiti e di mansioni, devono pubblicare la Ral (retribuzione annua lorda ndr) o quanto meno il range di stipendio.
Anche per i candidati, è inutile dirlo, i social vengono scrutinati ben più del curriculum. Perché sul curriculum ciascuno scrive quello che vuole, mentre è molto più complicato simulare la reputazione online. C’è molta tutela e uno sforzo di inclusione in fase di colloquio, ma le motivazioni che fanno propendere per un candidato anziché verso un altro sono composte da molti fattori e le informazioni vengono raccolte prevalentemente via social. Questa sicuramente è una problematica, un’arma a doppio taglio.