Sara Malaguti, Flowerista: «Il lavoro buono? Si ispira alla natura»
È la collaborazione, e non la competizione, ad alimentare l’innovazione e a spingere la crescita. È questa la chiave del “lavoro buono”, secondo Sara Malaguti, founder di Flowerista, ecosistema digitale che offre formazione, business coaching, consulenze e visibilità a tutti coloro che vogliono avviare o far crescere un business. Una realtà nata da un deciso cambio vita: Sara, dopo oltre 8 anni in Borsa Italiana, ha scelto di investire in un progetto personale ad alto impatto per creare lavoro, ispirandosi alla natura. Un’intuizione che l’ha portata a essere premiata come una delle 50 imprenditrici italiane più innovative del 2023 secondo GammaDonna.
Malaguti, nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, rimette al centro l’intelligenza della natura. Come mai?
«Sono uscita dal mondo corporate nel 2017, quando ancora non si parlava di Grandi Dimissioni, eppure la rottura con un modello lavorativo tradizionale era già molto forte dentro di me. Avevo 33 anni e non volevo che il denaro fosse il fine ultimo di tutto, come spesso accadeva in Borsa. Mi sono appassionata ai testi del botanico Stefano Mancuso e ho trovato le risposte che stavo cercando: dovremmo essere come gli alberi che trovano sempre un modo per andare avanti, nonostante abbiano risorse limitate. Ecco il significato più profondo della resilienza. Da qui è nata Flowerista, inizialmente un luogo virtuale in cui parlare di fiori e creatività in maniera trasversale, oggi uno spazio in cui formarsi nelle materie del digital marketing e della business strategy per far crescere i brand in modo sostenibile, con un focus specifico sulle imprese creative».
Come mai proprio questo tipo di imprese?
«Ho sempre amato tutto ciò che è creativo e manuale e credo che queste realtà abbiano un potenziale grandissimo. Molte di loro sono poco consapevoli di quali siano le opportunità di mercato, non sono digitalizzate, hanno una propensione pressoché nulla all’internazionalizzazione e alla misurazione degli impatti. Ma se imparano a mettersi in discussione e hanno il coraggio di innovare, possono guardare lontano. Per questo, ho fondato anche un Osservatorio dedicato alle PMI e alle microimprese del settore che consente di identificare trend e linee di interventi. In un’era ad alto tasso di tecnologia, infatti, le imprese culturali e creative (ICC) hanno grandi opportunità di crescita. Non è un caso che stiano tornando in auge molte attività di handfulness come la panificazione o il giardinaggio. Usare le mani è una pratica a cui non siamo più abituati, ma che ci fa riscoprire il senso del tempo e dell’umanità».
Una dote molto umana è la gentilezza. In che modo è applicabile al business?
«Credo che la gentilezza sul lavoro possa fare la differenza e, per questo, sarà al centro del festival che organizzo a Milano il 4 maggio. Il futuro del lavoro non può che essere innovativo e gentile. Questo non significa essere semplicemente educati nei modi. Significa essere rispettosi e collaborativi, non competere tra colleghi o team, ma piuttosto investire su ciò che ci rende unici e, al contempo, aiutare gli altri, senza temere di apparire deboli. Per passare dalla teoria alla pratica, però, è fondamentale l’indirizzo dato dal leader: deve chiarire quali sono i valori, la missione, la strategia e i goal dell’azienda. Le persone lavorano meglio quando sanno di avere uno scopo da condividere. E questo è un approccio che le aziende dovrebbero applicare anche nei confronti dei freelance esterni a cui fanno sempre più ricorso. Per anni hanno usato i freelance al solo scopo di ottenere servizi e competenze a bassi compensi. In futuro non sarà più così: stanno nascendo nuovi ecosistemi e le imprese tradizionali, se vogliono restare al passo, dovranno agire in modo diverso».
Cos’è per te un “good job”, un lavoro buono?
«È un lavoro sostenibile secondo quattro profili: psicologico, economico, ambientale e sociale. È un lavoro in cui la conoscenza è condivisa, in cui la reciprocità diventa un vero e proprio elemento di svolta. Ma è anche un lavoro fatto di nuove consapevolezze e di maggiore fluidità rispetto al passato in cui si è pronti a riconoscere che il “lavoro buono” di oggi potrebbe non essere il “lavoro buono” di domani. Nulla è per sempre, meno che mai l’occupazione. Questo per le aziende significa attivare non solo pratiche di onboarding e retention, ma anche di offboarding, per essere pronte al cambiamento del proprio capitale umano. In definitiva, un good job è un lavoro che evolve, che si adatta, che innova ed è resiliente. Proprio come insegna la natura».