Leadership gentile: una nuova via per il top management / 1

Nelle stanze fisiche e virtuali delle organizzazioni cresce sempre di più la consapevolezza che essere gentili sia un valore chiave, a partire dall’alto. Comunicare e guidare con gentilezza ha un impatto non solo umano e sociale ma anche di business. In un contesto di continuo cambiamento, un leader deve creare le condizioni affinché le persone si sentano coinvolte, valorizzate e responsabili dei risultati dei progetti a cui partecipano. La leadership gentile va ben oltre le consuete buone maniere, esprimendosi in una serie di valori cardine per la cultura e l’operato dell’intera organizzazione come ascolto attivo, rispetto, empatia, comunicazione efficace, riconoscimento, feedback costruttivi.

In origine, essere gentili non era cosa da tutti, come racconta la stessa etimologia della parola che deriva dal latino “gentilis” e significa “appartenente a una gens”. Nell’antica Roma, le gentes erano gruppi di famiglie patrizie che condividevano nome, origini e antenati comuni: in un primo momento, dunque, il valore spirituale era associato ad un elevato rango sociale. Con il susseguirsi delle epoche, le qualità morali e comportamentali sono diventate appannaggio di tutti, a prescindere dalla stirpe di appartenenza, e oggi la vera nobiltà, associata alla gentilezza, è indiscutibilmente quella d’animo.

L’associazione tra leadership e gentilezza non è sempre stata così immediata. All’ inizio del ‘900, la leadership gestionale era fortemente legata al potere e al controllo, con un focus esclusivo sulla realizzazione degli obiettivi. Con il tempo, si è assistito ad una evoluzione che ha condotto, agli inizi del nuovo secolo, a un cambio di paradigma. Un contributo determinante è arrivato da Daniel Goleman, il celebre “padre” dell’intelligenza emotiva, secondo cui un buon leader deve in primis saper gestire le proprie emozioni e comprendere quelle degli altri per creare risonanza nel gruppo, orientando le emozioni positive del team verso un traguardo condiviso.

Le parole di Goleman risuonano potenti in un’epoca in cui il mondo del lavoro è caratterizzato da forte instabilità e incertezza, prima con il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” e ora con quello che viene chiamato “Quiet Quitting”. Quest’ultimo termine, divenuto ormai una buzzword, indica un silenzioso abbandono emotivo basato su una profonda mancanza di coinvolgimento dei dipendenti, soprattutto della Gen Z, che si limitano a svolgere lo stretto indispensabile, rifiutando di prolungare l’orario lavorativo, impegnarsi in progetti extra o assumersi maggiori responsabilità.

Il recente studio “State of global workplace” dell’istituto statunitense Gallup conferma questo trend, restituendo una fotografia critica dello stato di benessere e coinvolgimento nelle aziende di tutto il mondo. In Europa, il 72% dei lavoratori si dichiara “non coinvolto” e il 16% “attivamente disimpegnato”, con volontà di ostacolare e/o sabotare l’azienda in cui lavora. Il 49% dei dipendenti europei vive in conflitto con il proprio lavoro e il 37% sperimenta uno stato di stress. La situazione non migliora passando all’Italia: il 25% degli intervistati riferisce di sentirsi triste ogni giorno. Nonostante si registri un lieve miglioramento rispetto all’anno passato, l’Italia mantiene un solido terzo posto dopo Cipro e Regno Unito nella classifica della tristezza. Inoltre, il 41% degli impiegati italiani è attivamente alla ricerca di un nuovo lavoro e il 25% si definisce “attivamente disimpegnato”, un dato dieci punti percentuali sopra la media europea.

Un’indagine condotta da Harvard Business Review ha esaminato il fenomeno del “Quiet Quitting” da un’angolazione diversa che considera non tanto la volontà degli impiegati di impegnarsi o meno nelle attività che svolgono quanto la capacità dei loro manager di costruire con loro un rapporto di fiducia, fondato su trasparenza, rispetto delle proprie promesse e competenza. Il fenomeno dell’abbandono silenzioso si acuisce proprio in ambienti dove mancano empatia e complicità con i propri leader, che non si dimostrano in grado di conciliare gli obiettivi aziendali con le esigenze individuali delle persone.

I numeri parlano chiaro: la leadership gentile non è solo un tema morale, ma un approccio strategico imprescindibile per le organizzazioni di oggi.

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