Come lavoreremo nel 2025?

Formazione, benessere e inclusione. Il mondo lavoro seguirà, nel 2025 più che mai, queste tre grandi direttrici. Trend emersi già nel corso del 2024, ma che si fanno ora sempre più importanti, e che anche noi di GoodJob! seguiremo con i nostri tavoli di lavoro (iscriviti alla nostra newsletter per avere aggiornamenti sulle prossime date). Per le imprese che vogliono guardare con competitività ed efficienza al futuro, e per il capitale umano, sempre più selettivo rispetto a un tempo, infatti, sono questi i “must have” di un lavoro che possa definirsi davvero “buono e ben fatto”. Vediamoli in dettaglio.

Formazione

L’Intelligenza Artificiale sarà sempre più presente nel mondo del lavoro, richiedendo un avanzamento delle competenze di tutto il capitale umano. Secondo un’indagine sugli HR Trends realizzata da Gartner, le aziende stimano un miglioramento del 23% della produttività nei prossimi 12 mesi proprio grazie all’AI Generativa. È fondamentale, quindi, far avanzare le competenze di lavoratrici e lavoratori con programmi di upskilling e reskilling. Una ricerca di ADP evidenzia, del resto, come il 42% delle persone in Italia ritenga che l’intelligenza artificiale possa sostituire gran parte o alcune delle loro funzioni lavorative. Per questo, sempre più organizzazioni integreranno l’analisi dei dati con l’AI per prevedere future esigenze di competenze e pianificare la forza lavoro in modo proattivo.

Potenziare le hard skills diventa centrale anche per ridurre il divario tra i profili ricercati dalle aziende e quelli effettivamente disponibili sul mercato. «La quota di aziende che fa un utilizzo significativo di AI è passata dal 26% del 2022 al 48% del 2023, ma solo il 10% dei lavoratori italiani possiede skills specifiche in questo campo, nonostante l’82% utilizzi quotidianamente competenze digitali» – fa notare Giuseppe Mayer, CEO Italia di Talent Garden che ha lanciato un percorso in collaborazione con Google Cloud dedicato proprio all’acquisizione di queste skills, la Startup School: Gen AI.

Ma non solo competenze tecniche: nel futuro del lavoro sarà sempre più importante padroneggiare le soft skills. Adattabilità, resilienza, propensione all’apprendimento continuo, pensiero critico, integrità ed etica sono alcune delle capacità che più saranno utili per poter navigare le onde tipiche di un mercato del lavoro in radicale cambiamento. Competenze che possono essere allenate anche attraverso un pieno coinvolgimento della leadership a cui si chiede di fare un passo avanti, per guardare prima alle persone e poi ai/alle professionisti/e, così da dare la possibilità a ogni individuo di esprimere al meglio il proprio potenziale. Spesso, infatti, vengono promossi come leader i cosiddetti “leader tecnici”, ovvero professionisti dalle indiscusse competenze di settore ma con scarsa empatia, che faticano a motivare i team, a risolvere i conflitti e a gestire le prestazioni in modo efficace. Un programma di leadership che miri a sviluppare l’intelligenza emotiva, quindi, è cruciale per promuovere ambienti lavorativi più coesi, in cui lavorare (e vivere) bene.

Benessere

Il benessere sul lavoro è una indiscussa priorità per il 2025. A testimoniarlo sono i numeri: il mercato globale del benessere aziendale sfiora i 70 miliardi di dollari, che si prevede possano crescere in modo significativo, raggiungendo i 95,8 miliardi di dollari nel 2028 (+37%). Al contempo però, come denunciato dalla già citata indagine People at work di ADP Research, il 64% dei lavoratori italiani soffre di elevati livelli di stress sul lavoro, al primo posto in Europa. Non solo: a livello globale, per il 79% dei dipendenti la propria azienda non si preoccupa del benessere sul lavoro. Non intervenire per garantire ambienti inclusivi, non assicurare un giusto equilibrio vita lavoro, non occuparsi della salute mentale delle persone, genera impatti negativi sia in termini di performance, che di attraction e retention.

Le organizzazioni possono fare molto per migliorare la salute e il benessere di collaboratrici e collaboratori, adottando una cultura volta alla piena inclusione, favorendo la creazione di ambienti di lavoro diversificati, investendo in programmi che promuovano la crescita personale, il supporto psicologico e la flessibilità. Lo stesso smart working rappresenta una delle misure che negli ultimi anni è stata più apprezzata da lavoratrici e lavoratori. Anche se, secondo il KPMG Ceo Outlook 2024, si attende un ritorno in ufficio entro i prossimi tre anni. Da gennaio 2025, ad esempio, centinaia di migliaia di dipendenti di Amazon dovranno dire addio allo smart working. E il colosso americano non è il solo ad aver invertito la rotta.

In Italia, secondo una ricerca condotta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2025 saranno soprattutto le piccole e medie imprese a richiamare con maggiore probabilità le persone in azienda, mentre sembra restare stabile la situazione nelle grandi e nelle microimprese. Complessivamente, anzi, il numero di smart worker potrebbe crescere del 5%, arrivando a un totale di 3,7 milioni di persone rispetto alle 3,55 milioni del 2024.

Qualunque sia la strada che le organizzazioni decideranno di intraprendere, una cosa è certa: le loro decisioni avranno un impatto sul capitale umano, ormai sempre più attento e determinato nello scegliere il percorso professionale più adatto alle proprie esigenze. E decisamente più pronto a riconoscere iniziative superficiali e poco coerenti con i valori dell’organizzazione che anziché essere di reale wellbeing rischiano di sconfinare nel cosiddetto “carewashing”.

Inclusione

Mancanza di inclusione ed elevati livelli di stress sono correlati. Come rilevato da una recente ricerca di Boston Consulting Group intitolata “Four Keys to Boosting Inclusion and Beating Burnout” e condotta su 11.000 lavoratori in otto Paesi di diverse aree geografiche, donne, membri della comunità LGBTQI+, persone con disabilità e lavoratori/lavoratrici senza postazione fissa sperimentano fino al 26% in più nei livelli di burnout rispetto al resto della popolazione aziendale. Allo stesso tempo, quando l’inclusione aumenta, il burnout si dimezza. Questa è una delle motivazioni che dovrebbe spingere le aziende a investire sempre più nella diversità, nell’equità e nell’inclusione.

Inoltre, rimane una sfida urgente il gap di genere: secondo il Global Gender Gap 2024, l’Italia, con un punteggio di 0,703 su 1, si posiziona all’87esimo posto a livello generale per parità di genere, ben 8 posizioni in meno rispetto al 2023. L’arretramento maggiore si ha proprio nella partecipazione economica: l’Italia è 111esima nella classifica. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro, infatti, presenta una differenza di -17.4% tra donne e uomini e la presenza femminile è sottorappresentata soprattutto nelle posizioni apicali, con solo il 15.3% delle aziende che fa capo a donne. Assicurare una pipeline diversificata di talenti (in ottica di genere, ma anche di cultura, etnia, background, abilità ed età), garantire equità retributiva, abolire discriminazioni anche implicite e microaggressioni, a partire dall’adozione di un linguaggio inclusivo e rispettoso, sono tutti fattori che possono rendere un ambiente lavorativo non ostile, favorendo il benessere dei dipendenti e impattando positivamente sulla loro performance.

In un’epoca sempre più segnata da grandi trasformazioni tecnologiche, la vera, grande, rivoluzione, dunque, non potrà che essere umana.

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