L’abilità indispensabile che nessuno inserisce nel proprio curriculum
La maggior parte dei laureati e di chi cerca lavoro, anche con più esperienze maturate sul campo, è abituata a infarcire il curriculum vitae con l’elenco delle competenze tecniche, dei risultati personali raggiunti e a enfatizzare entrambi durante i colloqui di lavoro. Tuttavia, per avere successo sul lavoro, personalmente o come parte di un gruppo, stanno emergendo abilità completamente diverse e apparentemente estranee o lontane dalla sfera prettamente tecnica.
Intelligenza emotiva
Le aziende, i team leader e i responsabili delle risorse umane sono sempre più alla ricerca di persone in grado di esprimere l’intelligenza emotiva. Nota anche come ‘EQ’, l’intelligenza emotiva è la capacità di comprendere e gestire le nostre emozioni e quelle degli altri e di utilizzare questa conoscenza per costruire connessioni positive e produttive.
«Relazioni costruttive, più che positive», precisa Chiara Forlin, psicologa attiva in Veneto specializzata sul mondo della scuola, dell’insegnamento e della formazione. «In ogni caso sì, l’intelligenza emotiva sta assumendo un ruolo di sempre maggiore importanza nel mondo del lavoro. Le cosiddette competenze ‘hard’ – quelle tecniche specifiche di ciascuna professione vengono date per scontate – ma sono le soft skills, ovvero le competenze trasversali o relazionali che spesso determinano il successo o il fallimento di un inserimento lavorativo».
Perché? ‘Le maggiori sfide nel mondo del lavoro di oggi non sono necessariamente questioni aziendali o problemi tecnici, ma nelle relazioni tra le persone. Gruppi di lavoro virtuali, social networking e un ritmo di cambiamento sempre crescente significano che la nostra capacità di lavorare insieme in modo efficace è più importante che mai’, scrive Mark Craemer, consulente per lo sviluppo delle organizzazioni, coach di leadership e autore di ‘Emotional Intelligence in the Workplace’.
Lavorare insieme agli altri
Ma lavorare insieme con gli altri è tutt’altro che scontato: età, cultura, pregiudizi, background, temperamento, abitudini sono tra i fattori che nell’incontro con gli altri muovono le nostre emozioni e potenzialmente generano conflitti. Negli ultimi 30 anni si è capito che l’aspettativa che ciascun lavoratore riesca a tenere a bada automaticamente la propria emotività dal momento in cui timbra il cartellino in ingresso a quando lo timbra in uscita, ecco, è poco più di un auspicio.
I primi a teorizzare l’intelligenza emotiva furono gli psicologi statunitensi Yale Peter Salovey e John D. Mayer in un articolo accademico pubblicato nel 1990. Cinque anni più tardi, un altro psicologo statunitense, Daniel Goleman, pubblica ‘Intelligenza Emotiva’. Il saggio, di immediato successo, sostiene che l’intelligenza emotiva è formata da quattro aree – autoconsapevolezza, autoregolamentazione, consapevolezza e gestione delle relazioni – e che l’intelligenza emotiva contribuisce in modo significativo a determinare il più noto Quoziente Intellettivo.
«Prima di Goleman nessuno riusciva a spiegarsi come mai persone che presentavano QI particolarmente elevati non riuscissero ad ambientarsi, a scuola, all’università o sul posto di lavoro», ricorda Forlin. Il contesto di lavoro, come l’università o qualsiasi ambiente in cui si ritrovino persone diverse è condizionato dalla qualità delle nostre relazioni. Sono le singole persone, in definitiva, a stabilire connessioni con gli altri e se non si è in grado di riconoscere e gestire le emozioni proprie e altrui portare a termine un compito, per quanto semplice, può diventare estremamente complicato.
Un bagaglio da riconoscere e valorizzare
«Saper ‘leggere attraverso’ le proprie emozioni, riconoscerle e gestirle, è rilevante quanto conoscere i propri sentimenti, i propri valori, i punti di forza del proprio carattere; è la gestione e la valorizzazione del tutto che ci consente di fare la differenza in un contesto”», ci dice Laura Leone, esperta di sviluppo del potenziale umano, oltre che presidente di AICP, una delle principali associazioni italiane di coach professionisti.
«In un sistema complesso come quello umano, le competenze trasversali (l’umano) sono tutte importanti: bisogna saperle, saperle riconoscere, osservare se, quando e perché cambiano. E ancora: saperle vivere insieme agli altri. La ‘competenza trasversale’ a cui dobbiamo rivolgere la nostra attenzione è quella tensione all’umano che sia reale e in equilibrio con la tensione al risultato. Quando dico reale mi riferisco al fatto che del ‘mettere la persona al centro’ se ne parla da decenni ma poi non si fa veramente, non abbastanza. Perché? L’esperienza mi insegna che è semplicemente faticoso, richiede tempo e un grande allenamento all’apprendimento continuo; ma il non farlo vuol dire continuare a sprecare».
Un processo educativo
«Quando parlo di apprendimento mi riferisco a quello che segue l’azione, perché le cose importanti dell’umano sono difficili da insegnare in un banco di scuola», specifica la presidente di AICP. «Si possono far sentire, far nascere, si possono trasmettere, allenare. Il processo per potenziare la competenza trasversale non può che essere un processo educativo, non di addestramento – per intenderci: non di formazione in senso stretto; per questo credo nel processo di coaching. È quando scendo in campo, nel campo della relazione, che posso apprendere come e perché mi sono ‘sbucciato un ginocchio’; se io e l’altro ci concediamo un tempo per osservare, per chiederci e per trasformare, quel tempo, usato con saggezza e conoscenza, è un grande investimento».
Certo, continua Leone, «l’intelligenza emotiva è sempre stata importante; allo stesso tempo se non è valorizzata insieme alle potenzialità del carattere, l’attenzione all’intelligenza emotiva rischia di essere molto riduttiva. Si pensi ad esempio ai modelli esistenti di reclutamento, molti dei quali dal mio punto di vista sono obsoleti proprio perché concentrati su elementi di rigidità e che non sfruttano come dovrebbero il dialogo tra persona e recruiter. Se come recruiter guardo con favore a un candidato che gestisce bene le sue emozioni e che mostra sicurezza nel colloquio, ma non ho um modello per comprendere quali potenzialità caratteriali stia allenando o sacrificando, quali sentimenti e valori lo ispirano e guidano, mi perdo una gran parte di ciò che la persona potrà dare al contesto e di ciò che io posso dare alla persona. I confini tra persona e organizzazione sono più sfocati di quanto si possa pensare. Vogliamo parlare di emozioni? Alleniamo e valorizziamo la tanto bistrattata sensibilità: ci siamo dimenticati che essere sensibili vuol dire, innanzitutto, sentire il mondo in cui siamo. È fondamentale per trasformarlo e rigenerarlo, è ingrediente alla base di quella famosa capacità innovativa a cui tutti aspirano. Ecco, rialleniamo la sensibilità piuttosto che la sicurezza».
Modelli di riferimento vecchi
Il fenomeno delle grandi dimissioni, partito prima della pandemia negli Stati Uniti e piombato in Italia nel 2021 ha colto di sorpresa un po’ tutti, imprese, agenzie governative, osservatori e analisti. Solo nel Veneto l’anno scorso sono state 198.800 le persone che hanno scelto di lasciare il posto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, probabilmente per trovarne un altro a condizioni migliori. I dati nel dettaglio sono qui. Per il 2022 i numeri sono ancora maggiori e a fine anno le dimissioni volontarie supereranno le 200 mila unità.
«Il punto è che i nostri modelli di riferimento sono vecchi», spiega ancora Laura Leone, «eppure ce l’abbiamo nei nostri geni culturali il saper fare insieme, il valore della relazione. Quando un colloquio di lavoro è una sessione di coaching – ciò che propongo io nelle realtà che vogliono osare e innovare – ciascuno dei due attori va a casa con un risultato, anche quando il colloquio non va a buon fine in termini di assunzione. Lo sappiamo bene tutti, lavoratori e contesti di lavoro, che sbagliare assunzione è un dispendio enorme di risorse, oltre che generare illusione e delusione. Il dialogo di recruitment va utilizzato in tutto il suo potenziale, è un momento e un luogo essenziale per la vita aziendale: può e deve permettere l’emergere da un lato dei valori reali dell’azienda e dall’altro delle reali inclinazioni e preferenze del candidato».
Per la presidente di AICP «i sentimenti e i valori rappresentano qualcosa di più solido dell’esperienza umana, sono ciò che ci lega all’altro, al contesto, alle azioni. Ecco che l’intelligenza emotiva acquisisce rilevanza se in relazione a tutto il resto».
Se la prima impressione si forma in soli 7 secondi, come ricorda un noto spot pubblicitario, l’abilità di osservare in cosa affonda quella impressione, coltivare l’apertura mentale e concedersi anche la possibilità di modificarla ci aiuterà a costruire relazioni più costruttive, trasparenti e proficue che, in ultima istanza, agevoleranno la nostra carriera.