C'era una volta la scala mobile. Il costo dell'inflazione cambia la vita agli italiani
C’era una volta la scala mobile. Nulla a che vedere con l’edilizia o i centri commerciali, parliamo di un termine che nella politica italiana ha avuto un ruolo centrale, ai tempi della prima repubblica. Ma che è tornato d’attualità con il boom dell’inflazione degli ultimi due anni. Una questione che, soprattutto negli ultimi mesi, sta avendo ricadute negative sullo stile di vita dei cittadini italiani.
Si tratta di un aumento generalizzato dei costi associati ai prodotti e ai servizi che, ad oggi, è intorno al 6% su base annua. L’inflazione non si focalizza esclusivamente sul prezzo delle singole merci, ma coinvolge un vasto insieme di beni e prestazioni. L’incremento dei costi comporta, infatti, una riduzione nella quantità di prodotti o servizi accessibili con le nostre risorse finanziarie: per questo motivo, l’inflazione riduce il valore della moneta nel tempo, gravando quindi sul potere d’acquisto della popolazione.
In questi giorni si parla molto di questo fenomeno perché sta avendo pesanti conseguenze sul turismo italiano: le previsioni di maggio delineavano un’estate 2023 in cui si sarebbe toccato un nuovo record di presenze. Tuttavia, ad oggi, ci scontriamo con una realtà molto diversa: una debole domanda interna. Il potere d’acquisto degli italiani è diminuito a causa dell’inflazione, accompagnata da salari fermi da diversi anni. Come risultato, si è ridotta la loro capacità di spesa e la richiesta di servizi turistici nel nostro paese è scesa del 30%. Da un’indagine dell’Istituto “Demoskopika” riportata dall’Ansa, emerge che l’inflazione si abbatte con particolare forza in cinque regioni: Molise (9,1%), Lazio (+9,5%), Lombardia (9,2%), Toscana (9,1%) e Campania (9%), con un rincaro cumulato di 1,6 miliardi di euro.
I recenti dati dell’Istat mostrano un piccolo trend positivo. Nel mese di luglio, infatti, l’inflazione è scesa sotto il 6% per la prima volta dopo un anno e mezzo, attestandosi al 5,9%. Il calo è dovuto in buona parte alla flessione del costo dell’energia, ma il “carrello della spesa” cresce a ritmi più alti, toccando +10,2%.
Ritorno al futuro
Con l’aumento dell’inflazione, negli ultimi tempi è riemersa l’attenzione di sindacalisti, politici e imprenditori verso la cosiddetta scala mobile: un sistema di rivalutazione automatica delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti introdotto in Italia nel 1945 grazie ad un accordo tra la Confederazione generale dell’industria italiana e la Cgil. L’obiettivo era assicurare agli italiani un salario dignitoso che potesse fronteggiare la forte inflazione postbellica.
Nel 1951 venne introdotto un meccanismo mediante il quale, in seguito alle variazioni dell’indice dei prezzi, scattavano aumenti corrispondenti alle retribuzioni. Il punto di contingenza, ossia l’importo che veniva erogato come parte integrante dello stipendio quando si verificava un incremento del costo della vita, era uguale in tutta Italia e in tutti i settori dell’economia ma aveva valori diversi a seconda della categoria, della qualifica, dell’età e del genere del lavoratore. La scala mobile a punto unico venne negoziata successivamente nel 1975, tra sindacati e Confindustria.
Nel 1984, questo meccanismo che aveva funzionato bene o male per tutto il periodo del boom economico, subì un primo smantellamento: un decreto approvato dal governo Craxi tagliò tre punti percentuali della scala mobile. L’obiettivo di Craxi era interrompere un meccanismo che, tramite la “rincorsa” continua tra prezzi e stipendi, aveva contribuito a portare fuori controllo l’incremento dei prezzi. Dal punto di vista economico, la misura ostacolava l’adeguamento dei redditi e delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti in risposta all’incremento del costo delle spese quotidiane. Contro questo provvedimento, il Pci di Enrico Berlinguer promosse un referendum abrogativo ma gli elettori scelsero di mantenere il provvedimento e il 54,32% votò “no”. La scala mobile, infine, venne definitivamente soppressa il 31 luglio 1992.
Lo scenario europeo
Un’analisi riportata dal Corriere della sera indaga la situazione nei diversi Paesi. In Svezia non esiste alcun legame giuridico o contrattuale tra i salari e l’inflazione, viene utilizzata solamente come argomento per giustificare eventuali incrementi retributivi. Nonostante ciò, i sindacati auspicano l’introduzione di una qualche forma di adeguamento automatico. Nei Paesi Bassi, anche se i datori di lavoro non sono obbligati ad adeguare i salari annualmente, le trattative riguardo al livello salariale godono di un’ampia libertà. In Danimarca l’adeguamento dei salari all’inflazione può essere previsto dalla contrattazione collettiva senza però costituire un vincolo vero e proprio.
Grazie all’adeguamento dei salari all’inflazione, il Belgio rappresenta uno dei Paesi in cui il potere d’acquisto nel 2023 non è diminuito rispetto al 2022, registrando un aumento del 2,9%. Nonostante gli effetti positivi che questa misura ha avuto nel breve termine, sta diventando sempre più difficile da sostenere, infatti è presente il rischio di una spirale prezzi-salari.
Anche in Lussemburgo, quando l’inflazione cresce, i salari ne seguono l’andamento: secondo il sistema di indicizzazione, se l’indice dei prezzi al consumo aumenta o diminuisce del 2,5% nei sei mesi precedenti, i salari vengono adeguati di conseguenza. In altri Paesi europei, dove non è previsto un meccanismo automatico di adeguamento salariale all’inflazione, si verifica un aumento degli stipendi per controbilanciare l’aumento dei prezzi.
Ad esempio, in Germania è stato stretto un accordo per garantire un aumento dei salari ai 2,5 milioni di dipendenti nel settore pubblico. Anche in Francia, nel 2022, si sono verificate significative crescite salariali, mentre in Spagna è stato raggiunto un accordo con i sindacati prevedendo un incremento del 9,5% in tre anni per i salari dei dipendenti pubblici. In Italia, invece, i salari sono rimasti invariati e, secondo i dati dell’Ocse, nel 2023 hanno subito una diminuzione del 7,5% rispetto ai livelli pre-pandemia.