Comunicare (è) inclusione: il cambiamento che parte dal linguaggio
Cosa significa comunicazione inclusiva? E soprattutto, a cosa serve? Qual è il rapporto tra il nostro linguaggio, il modo in cui comunichiamo, e la nostra cultura?
Sono solo alcune delle domande poste dal workshop introduttivo alla comunicazione come strumento di inclusione sociale realizzato da Indig. Tra gli ultimi, anche in un appuntamento riservato alle persone di Plenitude.
«Abbiamo parlato poco di schwa e asterischi e tanto di prospettive e punti di vista da ampliare – spiegano i co-fondatori di Indig – per capire come funziona il linguaggio nel riprodurre stereotipi e discriminazione, nelle parole e nel modo in cui impariamo e metterle assieme, e come disinnescando questo meccanismo possiamo fare attivamente inclusione. Anche semplicemente con la firma della mail, o leggendo i giornali con occhio più critico».
La riflessione parte dal definire il concetto di comunicazione inclusiva, per poi fare un passo indietro e approfondire le ragioni per cui c’è bisogno di adottare un approccio inclusivo alla comunicazione.
«Qualsiasi persona nella nostra società impara a usare il linguaggio assimilando un’idea di normalità, rispetto alle caratteristiche delle persone, che rispecchia delle dinamiche sociali di subalternità. Ecco che l’essere disabili diventa la deviazione dalla norma del non esserlo, così come l’essere eterosessuali è considerato normale rispetto al non esserlo. Una conseguenza di questo meccanismo è che sono i gruppi dominanti a far prevalere il loro modo di descrivere le minoranze nel linguaggio comune. E quindi ad esempio si affermano i modi in cui le persone bianche descrivono e parlano delle persone non bianche, poco importa se sono irrispettosi.
«Se è vero che la cultura influenza il linguaggio, è vero però anche il contrario. Mettendo in circolo parole rispettose, narrazioni non discriminatorie, si può contribuire, un pezzetto alla volta, a cambiare il nostro modo di pensare, come società».
Parole diverse con storie diverse, introdotte, nel workshop di Indig, da un excursus sui diversi tipi di discriminazione – e sul perché il linguaggio può rappresentare una forma di discriminazione indiretta.
«Si può analizzare che mentre parole come “invalido” portano già con sé un significato denigratorio verso una persona disabile, la problematicità di alcune espressioni, come l’essere “affetti da” per esempio autismo, può essere più difficile da comprendere. Alla base c’è una scarsa consapevolezza su cosa sia l’autismo – ovvero una modalità di funzionamento della mente e non, di per sé, una patologia – ma anche una sensibilità, quella della comunità autistica, da ascoltare. Capendo che evitare di considerare le persone autistiche come malate e deficitarie, può aiutare a favorirne l’inclusione sociale».
Mettersi in discussione e mettersi in ascolto, non a caso, sono i messaggi chiave proposti da Indig. «I consigli per gli approfondimenti, sui media tradizionali come anche sui social, sono sempre molto apprezzati», spiegano. «Lasciamo sempre più domande aperte che risposte, perché ci sono più cose su cui riflettere e da cui farsi ispirare di quante se ne possono trasmettere in un paio d’ore».