Felicità e lavoro: un binomio (im)possibile?
L’87% delle persone nel mondo è demotivata dal proprio lavoro, il 75% sostiene di lavorare in un ambiente difficile e il 26% soffre di disturbi di ansia legati al rientro in ufficio. Felicità e lavoro sono un binomio (im)possibile? A rispondere a una delle domande più delicate degli ultimi tempi è Simona Bargiacchi (nella foto sotto), Chief Happiness Officer, ovvero esperta della scienza della felicità e della sua applicazione in sistemi complessi quali sono le aziende.
La prima cosa da fare è, secondo Bargiacchi, un’analisi profonda di cosa ci rende davvero coinvolti sul lavoro. Scopriremo che sono tre i valori guida: autonomia, padronanza, scopo. «Autonomia significa avere la possibilità di scegliere i tempi, i modi e i contenuti del lavoro. Padronanza significa ricercare la competenza al massimo livello. Scopo vuol dire darsi un obiettivo più alto del semplice profitto».
Tre tasti dolenti
E qui già emergono tre tasti – dolentissimi – del mercato del lavoro italiano. Ovvero: flessibilità (sempre più richiesta dalle nuove generazioni, ma non accettata con convinzione da tutte le aziende), crescita (che va di pari passo con la formazione) e riconoscimento, inteso sia come welfare benefit, sia come giusta retribuzione (sì perché le due cose non si escludono a vicenda).
Ora, se il nostro approccio al lavoro si compone di tutti e tre questi elementi, possiamo dire di aver incontrato il lavoro ideale? «Secondo Richard Hackman, professore di psicologia organizzativa ad Harvard University, le condizioni che definiscono il lavoro ideale sono: la capacità di far emergere il talento e le competenze, l’opportunità di svolgere la mansione assegnata dall’inizio alla fine e l’impatto generato sugli altri», afferma Bargiacchi.
Lavorare in maniera asettica, occupandosi solo di una piccola parte delle attività, senza poter entrare nell’intero processo e – soprattutto – senza sentirsi parte di una squadra, finisce per svilire il senso di appartenenza e il coinvolgimento del lavoratore e della lavoratrice. Per questo, è fondamentale il ruolo del management. È il manager a dover intercettare eventuali segnali di sofferenza del capitale umano, agendo di conseguenza. Anzi, meglio ancora in via preventiva.
«Avere poca energia, non essere proattivi né creativi, non assumersi rischi e avere rapporti difficili con gli altri sono dei segnali chiarissimi di demotivazione, frustrazione e stanchezza – rileva l’esperta. E aggiunge: – Management, come ricorda Daniel Pink nel suo celebre “Drive”, non significa andare in giro a vedere se le persone sono nei loro uffici, significa creare le condizioni affinché le persone svolgano il lavoro al meglio».
Una ricerca individuale
Dunque, come possiamo ritrovare la felicità al lavoro? Anzitutto, dovremmo chiederci se siamo felici al lavoro, se possiamo lasciare il lavoro attuale e trovarne uno più significativo o se possiamo fare qualcosa per rendere più piacevole il lavoro che stiamo già facendo. È, in definitiva, una nostra responsabilità. E lo è anche quando apparentemente ci sentiamo bloccati dalla situazione presente come fossimo in gabbia.
A fronte dell’elevatissimo numero di dimissionari – oltre 2,2 milioni di persone solo nel 2022 hanno lasciato il lavoro in Italia – c’è infatti un numero ancora più elevato di persone che non ha la possibilità di mollare il proprio posto e che finisce per sentirsi intrappolato, alimentando ansia e frustrazione. Ma attenzione, perché come ricorda la Chief Happiness Officier, possiamo sempre fare del “job crafting”, ovvero possiamo messere in atto dei cambiamenti intenzionali.
«Possiamo fare task crafting, ovvero cambiare il tipo di attività a cui ci dedichiamo, o relationally crafting, dunque cambiare il livello di interazione con le persone intorno a noi, o operare il cognitive crafting, cambiando il modo in cui interpretiamo le mansioni concentrandoci sullo scopo finale» fa notare Bargiacchi, citando la lezione di Amy Wrzesniewski, psicologa organizzativa della Yale University.
Allenare il muscolo della felicità
Perciò, attenzione: la felicità è come un muscolo, si può allenare. Soprattutto se parliamo di felicità “eudaimonica”, ovvero di felicità non intesa come emozione fugace, ma come “stile di vita”. Essa ha a che fare con il modo in cui utilizziamo le nostre risorse interiori per interpretare il mondo e reagire agli eventi che ci accadono.
«Siamo portati a pensare che l’ottimismo sia una dote innata, ma molto dipende dai nostri comportamenti. Tendiamo, ad esempio, a vedere sempre il negativo in ciò che accade, ma dobbiamo e possiamo ribaltare la situazione. Anche se non sempre abbiamo la possibilità di controllare ciò che ci accade – avverte Bargiacchi – abbiamo sempre la possibilità di scegliere come reagire».
Il Chief Happiness Officer – figura che molte aziende stanno introducendo – conosce strumenti, pratiche e processi che se inseriti in un piano strategico coerente, possono aiutare le organizzazioni a realizzare vantaggi durevoli e sostenibili sia per il benessere delle persone che per i risultati di business. I piani su cui agire sono diversi. Le aziende potrebbero dover trasformare i loro modelli culturali e far evolvere la mission verso una dimensione ecosistemica. Potrebbero adottare una leadership positiva, da accompagnare con alcune pratiche sistemiche in ottica di benessere. E potrebbero fare della felicità una strategia organizzativa basata sulle competenze con processi e KPI ben definiti.
Le singole persone, a loro volta, potrebbero inserire nella loro quotidianità delle attività che generino reazioni chimiche positive. Pensiamo allo sport, al journaling (ovvero tenere un diario in cui liberare la mente lasciando scorrere i pensieri), all’esercizio della gratitudine, alla gentilezza o alla meditazione. Sono attività semplici e adatte a ogni tipo di routine che sovvertono e depotenziano la cultura del “prima il dovere” con cui siamo cresciuti e che ha spostato la felicità dopo il raggiungimento dell’obiettivo.
«Inoltre, consiglio sempre di dedicarsi ad attività che abbiano un impatto positivo sugli altri: fare del bene agli altri genera più felicità che fare del bene solo a se stessi. Trasportato questo concetto sul lavoro significa che in un ambiente competitivo, focalizziamo le energie sulla sfida personale, mentre in un ambiente cooperativo dirottiamo le energie verso il “noi” e questo ci rende più felici» – commenta la CHO, aggiungendo un’ulteriore provocazione: siamo così convinti che status e soldi facciano la felicità?
«Attenzione – risponde Bargiacchi – perché l’unica valuta fondamentale è la felicità. E non sono né i geni né l’ambiente a predire a quale livello di felicità avremo diritto. Piuttosto, saranno le scelte consce che faremo e le abitudini che sceglieremo di adottare a dirci se saremo felici, anche sul lavoro».
Foto di copertina Fernando Brasil / Unsplash