
Il lavoro buono passa dalla formazione continua
Non esistono risposte semplici per un problema complesso come lo skill gap. Le competenze, spesso obsolete, frammentarie e parziali, sono sul banco degli imputati di chi afferma che oggi sia difficile trovare personale opportunatamente formato. Una mancanza che ha chiare ripercussioni sulle aziende, impedendo a molte di esse di crescere ed essere competitive. Ma sono davvero le competenze a mancare o forse ciò che manca è una cultura della formazione che sia davvero trasversale a tutti i contesti (educativo e aziendale) e a tutte le generazioni?
È partito da qui il primo tavolo di lavoro 2025 di GoodJob!, realizzato in partnership con Radical HR, nella Future of Work House di Milano, lo scorso 21 marzo. Quindici esperti ed esperte si sono confrontati mettendo a sistema esperienze, vissuti personali e best practice, per definire quali saranno le “skills for the future”, le competenze più importanti per il futuro, e come nutrirle, allenarle e farle evolvere. Con una convinzione comune: in un contesto in cui il lavoro cambia più in fretta della capacità del sistema di adattarsi, capire cosa significa formarsi, quali skill serviranno davvero e come favorire l’incontro tra domanda e offerta di competenze, è diventato un passaggio obbligato per chiunque si occupi di lavoro. Un tema a cui GoodJob! dedicherà anche il prossimo tavolo di lavoro in programma a Roma il 4 aprile.
L’urgenza di lavorare sulle competenze, come evidenziato da Luca Romano, founder di Local Area Network, arriva dai numeri: ingegneria, tecnologia e scienza sono le discipline più ricercate dalle aziende, ma le iscrizioni a questi corsi di laurea non decollano. Per non parlare degli Its digitali, frequentati solo dall’1,3% degli studenti. Un problema di mancato orientamento, come sottolineato da Valentina Magri, giornalista e autrice del saggio Gioventù bloccata, che porta le scelte formative a non rispondere alle logiche del mercato. «Una formazione troppo teorica unita alla scarsa esperienza pratica rende i giovani impreparati ad affrontare il mondo del lavoro. La scuola forma alla cultura, ma deve anche preparare al mercato, altrimenti si rischia la trappola dell’esperienza: non lavoro perché non ho esperienza, e non ho esperienza perché non lavoro» – ha commentato.
Ma non è solo fondamentale saper scegliere, anche sapersi aggiornare. Come ricordato da Anna Sofia Zanada, Community Manager di Randstad Box, le competenze hanno una “data di scadenza” pari a circa 5 anni. Da qui l’urgenza di passare da una logica di “skill statiche” a una visione dinamica, centrata sul potenziale. «Le aziende devono iniziare a valutare i candidati per quello che possono imparare, non solo per quello che sanno fare oggi» – ha spiegato Zanada. Un approccio “skill-first” che richiede flessibilità e contaminazione continua. Sforzo a cui sono chiamate anche le aziende che devono legittimare il tempo dedicato alla formazione. «Servono tempo, supporto manageriale e strumenti accessibili come learning path, piattaforme dedicate e sistemi di coaching interno per far sì che la formazione non sia solo sulla carta» – ha sollecitato Raffaella Centonza, consigliera e coordinatrice del gruppo di lavoro HR di Assintel ed HR Business Partner di BMC Software.
Se ben gestita, per altro, la formazione diventa uno straordinario fattore di fidelizzazione e crescita personale e professionale, come rilevato da Dalila Dabbicco, esperta di Human Resources, Culture and Innovation e Board Member di HBS Club of Italy: «L’innovazione non è solo questione di tecnologia, ma anche di cultura e approccio. Abbiamo bisogno di leadership inclusive e di visioni di lungo periodo per creare ambienti capaci di far emergere il potenziale di tutti». Serve, dunque, il contesto opportuno per far sì che i talenti possano essere riconosciuti e poi adeguatamente nutriti. Per Andrea Raimondo, cofounder di Talentware, è indispensabile imparare a mappare le skills, ma anche le aspirazioni individuali così da poter costruire carriere più fluide e aperte alle nuove sfide. Così come è altrettanto importante far sì che ogni persona sia libera di potersi esprimere, senza temere il giudizio altrui: «Spesso le organizzazioni selezionano profili eccellenti, ma poi li bloccano non dando loro la possibilità di esprimersi. La leadership deve saper creare un contesto in cui ogni talento può crescere, anche sbagliando. Anche queste sono skills importanti per il futuro del lavoro» – ha commentato Alessandra Colonna, CEO di Bridge Partners.
Il punto è che spesso non siamo in grado di riconoscere una competenza e, di conseguenza, non si sa su cosa sia più opportuno formarsi. «Le aziende spesso guardano ai singoli tools, ma dovrebbero interrogarsi molto di più sul “perché” e sul “come” acquisire competenze strategiche» – ha affermato Paolo Carnovale, General Manager di GoodHabitz’s. Ciò comporta riconoscere che le prime skill sulle quali agire nell’era dell’Intelligenza Artificiale sono: pensiero critico, pensiero creativo, pensiero computazionale e intelligenza sociale.
Inoltre, come sottolineato da Matteo Roversi, cofounder di Cosmico, è fondamentale che le aziende evolvano adottando un approccio più flessibile e realmente orientato alla valorizzazione del talento. «Lo skill gap, di fatto, non esiste o meglio: è una narrazione utile a coprire altri temi come i salari bassi, l’incapacità di riconoscere i talenti interni e la tendenza delle aziende a scaricare il peso della formazione sul sistema educativo o sui lavoratori stessi» – ha provocato Roversi. Provocazione raccolta da Chiara Cormanni, Chief Operating Officer di PPinox Srl e Presidente Comitato Imprenditoria Femminile Camera di Commercio Milano Monza Brianza Lodi, che ha evidenziato quante siano le sfide che le Pmi devono affrontare quotidianamente. «In un mondo in cui i costi aumentano e il tempo per pensare al futuro è sempre meno, non è facile stimolare un cambiamento così profondo. Ma abbiamo bisogno, senza dubbio, di investire nella formazione con percorsi di upskilling interni e di innovare creando nuove sinergie con le startup».
Le resistenze sono spesso presenti sia dalla parte imprenditoriale che dagli stessi lavoratori, chiamati oggi a fare uno scatto in avanti in termini di cultura del lavoro, riconoscendo che l’employability dipende in primis da loro. E questo è, forse, il più grande sforzo culturale da portare in Italia. Un Paese in cui allo skills gap si somma in gender gap: metà della popolazione femminile è distante dal lavoro e se guardiamo a quante occupano posizioni in ambito Stem, la presenza femminile è ancora minore. Camera di Commercio e Formaper, per questo, sta sviluppando un programma di reskilling che punta a integrare le competenze umanistiche, solitamente possedute soprattutto dalle donne, con il data management, per promuovere una nuova competitività.
«Spesso i percorsi delle donne sono penalizzati da stereotipi, mancanza di supporti concreti alla conciliazione e da un orientamento scolastico che continua a disincentivare l’accesso alle Stem. Invertire la rotta non è solo una questione di pari opportunità, ma anche di competitività e sostenibilità del sistema economico. Per questo, con SheTech lavoriamo per favorire empowerment e inclusione del talento femminile anche nel contesto digitale» – ha aggiunto Laura Nacci, responsabile della formazione in SheTech. E lavora sull’inclusività anche Generation Italy con percorsi formativi intensivi costruiti insieme alle aziende, con un focus sulle soft skill e l’occupabilità: «L’80% dei nostri corsisti trova lavoro entro sei mesi» – ha affermato Paola Guttadauro, marketing & communication manager di Generation Italy.
Per rendere particolarmente attrattiva la formazione, inoltre, si potrebbero utilizzare soluzioni innovative e far sì che anche le piattaforme parlino il linguaggio dei social media. È il modello portato avanti da Epicode e presentato da Andrea Zangiacomi, secondo cui contenuti fruibili da smartphone, video brevi e dinamiche ispirate ai social, potrebbero superare una soglia dell’attenzione sempre più bassa.
In definitiva, per ridisegnare la formazione e più in generale favorire l’evoluzione del mondo HR, dovremmo adottare un approccio collaborativo, aperto e innovativo. La formazione permanente deve diventare parte del Dna di ogni organizzazione e di ogni singolo talento. Perché il futuro del lavoro si gioca, sempre di più, su cultura organizzativa, visione sistemica e capacità di creare alleanze tra mondi diversi. «Solo così potremo arare il terreno in profondità e far sì che fioriscano le competenze di cui abbiamo più bisogno. Questo presuppone, da un lato, un grande lavoro di inculturazione e, dall’altro, l’accettazione del cambiamento» – ha concluso Alessandro Rimassa, founder di Radical HR. E solo così, aggiungiamo noi di GoodJob!, il lavoro potrà essere davvero buono e ben fatto.