Andrea Panato: «L'AI cambia le professioni. E i giovani cercano prospettive di crescita»
L’impatto dell’intelligenza artificiale, le competenze ed esigenze delle nuove generazioni, le prospettive di carriera che si allargano oltre i confini nazionali: temi all’ordine del giorno non solo per l’industria e il terziario. Anche il mondo delle professioni è investito da questi cambiamenti. Ne parliamo con Andrea Arrigo Panato, dottore commercialista e revisore legale milanese con un occhio attento alla tecnologia e ai settori innovativi.
Qual è l’impatto delle tecnologie digitali su un mondo a lungo considerato immutabile come quello delle professioni?
Immagino che nei prossimi cinque anni l’intelligenza artificiale cambierà profondamente il nostro lavoro. La contabilità sarà gestita in misura crescente dalle macchine e assorbirà sempre meno tempo dei professionisti. Aumenterà di conseguenza la quota di energie da dedicare ad altri aspetti, come la revisione dei bilanci infra-annuali e previsionali. I tempi di questo passaggio dipendono da tanti aspetti, tra cui le scelte delle società di software e i ritmi della normativa, che in Italia a volte è molto lenta. Ma di sicurò è un passaggio che avverrà.
In questo scenario, che tipo di competenze serviranno?
Sarà un lavoro molto più divertente e interessante. Offriremo servizi nuovi e per questo serviranno nuove competenze, di strategia, ma ciò non significa che quelle vecchie non serviranno più. Perché devo capire la partita doppia se poi materialmente la fa il computer? È un aspetto che rischia di essere sottovalutato, ma senza questi saperi di base si rischia di fare danni.
Questa trasformazione si incrocia con il ricambio generazionale. Com’è vista oggi dai giovani la carriera nelle professioni?
Un tempo si identificava una professione, si iniziava la carriera e si andava avanti per quella strada, generalmente con la prospettiva di restare in Italia. Oggi il percorso è molto diverso: inizio a fare un lavoro, so già che a causa della tecnologia questo lavoro si trasformerà, non so se le competenze che oggi l’azienda mi richiede invecchieranno facilmente, non so se l’Italia è il posto giusto in cui sviluppare la mia carriera. Si aprono quindi due strade. Da un lato c’è il rischio di guardare eccessivamente al breve termine: mi parcheggio in una realtà “sicura” nella mia città, in attesa di trovare occasioni più avanti in una grande società di consulenza. Dall’altro, c’è chi cerca direttamente lavoro in una multinazionale che apra una porta verso l’estero. I giovani hanno potenzialmente tantissime possibilità e in qualche modo questa abbondanza di occasioni può avere anche un effetto paralizzante.
Quindi state perdendo appeal?
In alcuni casi, come quello dei commercialisti, il lavoro è legato alla normativa italiana e quindi ha un vincolo nazionale. Ciò presuppone una decisione netta, costringe a fare una scelta: se si lavora in questo ambito si resterà in Italia. Le professioni di questo tipo possono quindi apparire meno attrattive, ma essere legati all’Italia non significa che non ci si deve aprire al mondo e non essere interconnessi con altre realtà all’estero. È un tema che soprattutto ai ragazzi va ben spiegato.
Che ne pensa del fenomeno delle grandi dimissioni?
Io non le ho viste, credo ci siano molti contratti a termine che non vengono rinnovati. In Italia piuttosto il problema è che abbiamo un numero enorme di Neet, giovani che non studiano né lavorano, e allo stesso tempo le aziende, anche le migliori, fanno fatica a trovare persone.
Il problema non sono le retribuzioni troppo basse rispetto all’estero?
Credo che in Italia influisca di più la scarsa produttività. Le imprese guadagnano meno e di conseguenza pagano meno i collaboratori. Milano poi ha un problema di affitti alti. Ma in generale credo che le difficoltà siano più accentuate per le piccole e medie imprese. I giovani si chiedono dove avranno l’opportunità di crescere più velocemente, in una realtà grande o piccola? Se sei “piccolo” devi aver chiaro di essere una “boutique”, una pmi ma di qualità, che dà possibilità di crescere.
Le aziende sanno comunicare questa prospettiva di crescita?
È un problema di fiducia da costruire. Le persone della mia generazione danno per scontato che un percorso di carriera, nel tempo, porti a un “premio” anche economico. Ma questa sorta di patto implicito andrebbe esplicitato il più possibile, comunicato chiaramente. I ragazzi vivono un’enorme incertezza per il loro futuro e le imprese devono fare la loro parte per ridurla.
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