L'entropia del job title: una giungla inestricabile e spesso inefficace
Che lavoro fai? Fino a trent’anni fa la risposta era semplice: ingegnere, bidello, idraulico, insegnante, spazzino, medico, giardiniere, ecc. Poi sono state introdotte le nomenclature edulcorate quindi il bidello, ritenuto poco dignitoso, è diventato collaboratore scolastico così come lo spazzino si è trasformato in operatore ecologico.
La ricerca della specificità e della precisione nell’indicare le funzioni ha mutato anche l’idraulico in manutentore di …, l’insegnante in formatore e all’ingegnere sono stati associati decine se non centinaia di titoli: non più solo civile o informatico ma sulla spinta dell’economia digitale ecco fiorire director, project, environmental, design, quality, analyzer, tutto rigorosamente in inglese, perché sembra più attrattivo e professionale, fino ad arrivare ai vaghi continuous improvement engineer o devops engineer. La moda di edulcorare o aggiungere parole che specificano la professione non è un’esclusiva degli ingegneri o degli informatici, tanto per capirci se vuoi sistemare la siepe di casa devi rivolgerti a un garden engineer e guai a chiamarlo giardiniere che si offende.
Ebbene sì, quando parliamo di job title o titolo di lavoro in italiano, siamo di fronte a un’autentica giungla. Sono migliaia e la maggior parte generano confusione, ottenendo l’effetto opposto di quanto si propongono. Anziché riassumere in modo preciso il ruolo, le competenze e il livello occupato da una persona all’interno di un’organizzazione, sono pomposi, «altisonanti e rispondono a stilemi quasi letterari più che pratici», ci dice Nicholas Napolitano, esperto di innovazione tecnologica, sociale e di business. Da anni si occupa anche di formazione digitale in ambito professionale ed educativo e ha maturato esperienze di docenza universitaria sulle nuove tecnologie, facendo parte anche di Technical Board per supportare gli studenti nella creazione di progetti innovativi.
«Di fatto il problema si è presentato con l’avvento della digitalizzazione di massa», ci spiega. «L’innovazione tecnologica ha portato a tante nuove specializzazioni, già solo con ingegneria potresti avere decine o centinaia di diversi job title. Se fino a pochi decenni fa si basavano sugli studi o sulle norme UNI o ISO, oggi sono diventati tantissimi ed entropici».
Dal fenomeno emergono almeno due problemi, continua Napolitano. «Da un lato si perde l’efficacia. Il job title alla fine riassume o dovrebbe riassumere la carica ricoperta da individuo all’interno dell’azienda e la sua professionalità. Serve a presentarsi in modo chiaro e ad associare una persona a delle competenze professionali precise. Ma se io mi presento, ad esempio, come ‘Experienced – Cloud Strategy & Architecture – IT Advisory & Consulting’ è palese che la chiarezza viene meno. L’estrema espansione di una frase che dovrebbe essere breve, precisa e rigorosa, impedisce di circoscrivere le attività di cui mi occupo che caratterizzano la mia professionalità, le mie competenze e conoscenze, in sintesi cosa so fare».
E poi c’è un problema di identità, afferma Napolitano. «Quasi sempre i job title sono definiti dalle organizzazioni e quindi dai reclutatori. Secondo Dan Cable, docente di Comportamento organizzativo alla London Business University, uno dei più accreditati studiosi sul campo fare rebranding dei job titles intorno al perché del lavoro, alle particolarità culturali e all’identità personale del lavoratore può avere effetti importanti su come gli esterni reagiscono alle varie posizioni lavorative e su come chi le occupa percepisce se stesso. Ma stiamo parlando di un mondo del lavoro che con le nuove generazioni è profondamente cambiato. Oggi il lavoro è inteso come un mezzo e non come un fine, quindi difficilmente vengono accettate classificazioni decise a priori che però hanno un impatto significativo sull’identità e quindi sulla sfera personale».
In questo, Napolitano ravvisa un notevole pregiudizio culturale per cui l’organizzazione tende a incasellare dipendenti e collaboratori in griglie di significato che non rispondono alle esigenze dei lavoratori.
Senza contare che l’entropia dei job title comporta una serie di vincoli, afferma ancora Napolitano: «Per i lavoratori, provocano confusione operativa: se sono troppo generici, portano a una generale difficoltà ad inquadrare le attività rappresentative di quella determinata mansione. Se al contrario sono troppo specifici si rischia un’eccessiva micro-frammentazione delle attività assegnate, con il risultato di rendere più complicato poter offrire un valore aggiunto all’organizzazione in modo sfaccettato e completo. In generale, risulta complesso poter individuare in modo chiaro il proprio valore sul mercato e riuscire a valorizzare in modo efficace il proprio insieme di competenze con un piano di sviluppo. Il limite più grande ed evidente è proprio nei confronti dell’evoluzione delle persone, quindi della loro carriera».
Una delle cause del mancato allineamento tra domanda e offerta di lavoro, sostiene Napolitano, sta proprio nella proliferazione dei job titles con un rallentamento dei processi di selezione e difficoltà ad attrarre e coltivare i talenti. «Secondo Margaret Neale, professoressa alla Stanford Graduate School of Business, ‘Quando si accetta una nuova posizione o si cerca una promozione, la maggior parte delle persone tende a concentrarsi sulla negoziazione dello stipendio. Ma anche il tuo job title dovrebbe far parte dell’equazione. È un segnale sia per il mondo esterno che per i tuoi colleghi di quale livello hai all’interno della tua organizzazione. Il job title dovrebbe essere visto come un elemento da valutare oltre al proprio pacchetto retributivo, poiché offre status, connessioni e può aiutarti a svolgere meglio il tuo lavoro’».
Se nelle organizzazioni l’entropia dei titoli è altissima, tra i professionisti sfiora da tempo il ridicolo. «Un articolo del New York Times, nel 2015, riportava come su LinkedIn si potevano contare 74.000 ‘brand architects’ e 35.156 ‘professional evangelists’, e oltre 55 mila persone avevano aggiunto ‘influencer’ nel loro job title», riporta divertito Napolitano.
La chiave di volta è la «consapevolezza perché offre una maggiore possibilità di valorizzare se stessi», conclude Napolitano. Il titolo ha valore relativo e non assoluto. Alle volte è valorizzante per scopi di marketing, ma bisognerebbe sempre poter riconoscere competenze e funzioni e la possibilità per le persone di comparare le offerte e migliorare i processi di selezione. Se si riuscisse a costruire una mappa analitica e rigorosa si potrebbe ridurre sensibilmente l’entropia che in questo momento imperversa».
Se, nel frattempo, vi state interrogando sul vostro job title e non ne siete del tutto soddisfatti, l’intelligenza artificiale vi viene in soccorso. Questo strumento gratuito online genera per voi il titolo di lavoro (Free Job Title Generator), a patto di dargli le informazioni esatte.
Nella foto: Nicholas Napolitano