Migrazioni (in)volontarie, così il lavoro ridisegna le città: intervista ad Annalisa Calastretti
Siamo tutti, nel bene o nel male, migranti (in)volontari. Siamo persone in viaggio: per lavoro, per formazione, per intrattenimento. Migrando, attraversiamo le città e le trasformiamo. Per questo, gli uffici, le università, gli spazi della ricettività, diventano qualcosa in più rispetto al passato. Evolvono, sia in senso estetico che identitario. Un fenomeno che è stato indagato dalla società internazionale di architettura e design Il Prisma, con la ricerca Migrazioni [in]Volontarie. L’indagine indica come le diverse tipologie di spostamenti stiano modellando lo spazio urbano. Annalisa Calastretti, Director della Business Unit Worksphere de Il Prisma, tra le relatrici intervenute al tavolo di lavoro “La città inclusiva: per un territorio capace di integrare” tenutosi in occasione de Gli Stati Generali delle città intelligenti di City Vision, spiega quali saranno i prossimi driver di progettazione.
Annalisa Calastretti
In che modo i movimenti quotidiani delle persone impattano sulle città? Cosa vi ha portati a indagare queste trasformazioni?
Le migrazioni (in)volontarie delle persone influiscono in maniera determinante sulle nostre città. È un tema di grande rilevanza per tutte le nostre business unit – Cityscape, Destination e Worksphere – per questo l’abbiamo messo al centro del nostro osservatorio permanente. Le città si sono trasformate da luogo statico di residenza a interfaccia facilitatrice di relazioni per nuovi ecosistemi. Sono nati nuovi distretti secondo il modello della città in 15 minuti, progetti di riqualificazione e rigenerazione urbana e di recupero architettonico. Sono temi centrali in ottica di sostenibilità ambientale, visto il grande impatto dell’edilizia, ma anche sociale.
Quanto ha influito la pandemia su questo cambiamento?
Moltissimo. Guardando al mondo del lavoro, non si parla più solo di workplace, ma di worksphere. Il lavoro non si declina più solo nel binomio casa-ufficio, ma abbraccia una sfera più ampia della nostra vita. Questo porta gli spazi al piano terra degli edifici ad aprirsi verso l’esterno diventando sempre più spazi pubblici. Gli alberghi, allo stesso modo, si stanno riconvertendo, assumendo la forma di luoghi ibridi, pronti ad accogliere non solo turisti e viaggiatori, ma anche lavoratrici e lavoratori di passaggio. La città intera diventa luogo di lavoro diffuso.
Ma molte aziende stanno richiamando le loro persone in sede…
È vero: tante aziende stanno riportando il personale in ufficio. Questo accade perché molte imprese vedono lo smart working come una sorta di benefit, invece è un nuovo modello organizzativo. Per questo, non basta rivedere gli spazi per cambiare le modalità di lavoro: serve un approccio sistemico che deve impattare sugli spazi ma anche sulla tecnologica. Il “new way of working” si costruisce con un investimento di lungo periodo su people & culture, ovvero su persone e cultura. Bisogna lavorare per obiettivi, altrimenti non diamo gli strumenti alle persone per vivere appieno questo cambiamento.
Acqua di Parma – Il Prisma – photo Vito Corvasce
In che modo intervengono gli spazi in queste nuove dinamiche?
Gli spazi, più che le policy, sono cruciali per riportare le persone in ufficio: dobbiamo progettare luoghi di condivisione e socializzazione che riempiano di significato il ritorno in sede. La varietà delle ambientazioni nei luoghi di lavoro è decisamente maggiore rispetto al passato: dobbiamo ricreare dei rituali nelle aziende, dei momenti di condivisione e accrescimento sia per le persone che le organizzazioni. Noi italiani siamo in un certo senso agevolati perché da sempre diamo grande importanza alla socializzazione.
Il luogo fisico in cui lavoriamo definisce l’identità del nostro lavoro?
Sì, è una dimensione che fa la differenza, in termini di benessere, di coinvolgimento, di purpose. Dobbiamo creare flessibilità negli ambienti di lavoro affinché siano a disposizione di tutti e vadano bene per tutti e tutte. Il 20% delle persone, ad esempio, è neurodivergente e di questo dobbiamo tenerne conto. Dobbiamo rendere gli ambienti personalizzabili dai singoli utenti e creare spazi di decompressione. Servono sia aree di svago per chi fa tanto lavoro focalizzato, sia luoghi di silenzio per chi invece lavora molto in team. La creatività ha bisogno di condivisione per esprimersi, ma anche di fasi riflessive.
Ci può fare degli esempi?
Penso al Workcafè che abbiamo progettato per LVHM Beauty: non è solo luogo di unione tra i vari brand del Gruppo, ma uno spazio concretamene inclusivo con la gestione della Fondazione Cometa. Un luogo flessibile di accoglienza e di ritrovo che si collega ai valori aziendali, riflette l’impegno per una società più equa e diversificata, muovendo al contempo un senso di unità e uno scopo condiviso. Ancora, penso agli spazi progettati per Acqua di Parma in cui sono presenti un portico e una piazzetta centrale con un grande albero di limoni simbolo del brand. Questo è lo spazio in cui vivere il rituale di convivialità che racchiude in sé la bellezza dello stare insieme e dello scambiarsi idee. Un altro esempio sono gli spazi della Graduate School of Management del Politecnico di Milano focalizzati sulla promozione del benessere, con frasi basate sui valori, incoraggiamenti a uno stile di vita sano e segnaletica inclusiva. Sono elementi che dimostrano la volontà che tutte le persone, indipendentemente dalle loro capacità o disabilità, possano accedere alle informazioni in modo efficace.
LVMH Beauty Italia – Il Prisma – photo Carola Merello
Tutto questo porta a un cambiamento anche nelle competenze di chi si occupa di progettazione?
Assolutamente, quando ho studiato architettura pensavo a combinare la parte artistica con quella tecnica. Oggi, invece, c’è molto di più: noi architetti abbiamo una grande responsabilità sociale. Disegnare spazi non significa solo progettare qualcosa di esteticamente bello, ma vuol dire ideare luoghi che possano facilitare le relazioni tra le persone; contesti che possano generare benessere individuale e condiviso.
Cos’è per lei un GoodJob, un lavoro buono?
Per me un GoodJob è un lavoro che ci rendere felici. E io sono molto felice di ciò che faccio, ancor di più perché si è evoluto rispetto alle aspettative che avevo in gioventù acquistando un importante valore sociale.
In copertina: Politecnico di Milano, progetto Il Prisma – Polimi – photo Vito Corvasce