Paralimpiadi e disabilità, Valentina Tomirotti: «Cambio di rotta della comunicazione, ma non basta»
Conclusa la diciassettesima edizione dei Giochi Paralimpici, è tempo di fare un bilancio su come questo evento internazionale è stato raccontato e comunicato attraverso i media. «Non basta fare un cambio di rotta della comunicazione, è il modo in cui viene affrontata la tematica in modo ufficiale il problema» è il primo commento di Valentina Tomirotti, giornalista, content creator e diversity teller, che ci ha guidati attraverso l’interpretazione dei fatti e delle informazioni su questi temi.
Analizzare il racconto delle Paralimpiadi è un interessante esempio di come viene trattato il tema della disabilità, che nel contesto di una competizione internazionale può dar spazio a influenze significative nei confronti della percezione del pubblico, cogliendo l’occasione per proporre una narrazione adeguata riguardo al rapporto tra disabilità e competizione sportiva.
Questo clima di maggiore discussione e risalto del tema offre un’opportunità preziosa per riflettere sul come, in Italia, si affrontino tematiche legate alla disabilità, particolarmente in ambito lavorativo. Attraverso l’analisi dei dati sull’occupazione e le criticità legislative, quello che emerge è che sono ancora molti i passi necessari per un sistema del lavoro efficace e accessibile a tutti.
Da Londra a Parigi, una svolta nella narrazione
In quest’ultima edizione si è discusso molto su come l’ironia sia stata al centro dell’impianto comunicativo delle Paralimpiadi, non solo per gli atleti, ma anche come vera e propria strategia nei canali social ufficiali dell’evento attraverso i diversi contenuti divenuti virali. Un’iniziativa che si è posta sicuramente l’obiettivo di far conoscere al vasto pubblico l’evento e, contemporaneamente, “sdoganare” il tema della disabilità proponendolo attraverso una narrazione alla portata di tutti.
Questa nuova formula si discosta dalle precedenti che hanno contraddistinto i giochi paralimpici, vincolati ad un concetto di eroismo ed esaltazione degli atleti non come campioni, ma come semplici partecipanti.
L’esempio più lampante arriva nel 2012 con le Paralimpiadi di Londra, attraverso la campagna pubblicitaria di Channel 4 intitolata «Eccovi i superumani», che grazie alla risonanza ottenuta ha influenzato significativamente il racconto e l’immagine dell’atleta paralimpico. Oggi, quello che gli atleti cercano di fare è discostarsi il più possibile da questa immagine, come dimostrato dalle diverse contestazioni mosse dagli stessi, tra cui la campionessa di scherma Bebe Vio o il paraciclista Luca Mazzone. Il paragone con l’eroismo infatti non fa altro che accentuare la considerazione del diverso, allontanando gli atleti dall’essere riconosciuti come sportivi inseriti all’interno della propria categoria e, cosa più importante, in competizione tra loro.
Le barriere che resistono (nonostante le parole)
Commentando la comunicazione, Tomirotti afferma che «hanno provato a fare dei passi in avanti, ma purtroppo lo stereotipo che percepisce il pubblico è ancora lontano. Provare a migliorare è cosa buona e giusta, ma non abbiamo ancora cambiato molto la percezione del pubblico. Tentare la strada dell’ironia può essere utile, come hanno fatto, ma solo per farsi ascoltare». La giornalista prosegue poi sollevando due aspetti fondamentali che ancora oggi discriminano gli atleti in questa competizione: «Gli atleti vengono contemplati come eroi ma nella realtà vengono sottopagati, non prendendo lo stesso compenso degli atleti olimpici e venendo stipati nelle città come nel caso di Parigi, che però non è a prova di disabilità».
Dalle parole di Tomirotti infatti emerge una questione fondamentale, legata alle barriere architettoniche delle città ospitanti dell’evento. Portata all’attenzione da molti atleti, l’inaccessibilità degli spazi è diventata anche il soggetto di una campagna pubblicitaria promossa dall’azienda ortopedica tedesca Ottobock, riassunta nel video di presentazione «La disciplina non ufficiale», mettendo in luce una situazione che non riguarda solo gli atleti, ma un miliardo di persone disabili limitate negli spostamenti a causa degli ostacoli presenti nelle città.
«Tutti pensano che le sfide degli atleti siano le medaglie, ma la vera sfida risiede nell’essere atleti e dover convivere in un mondo in cui esistono le barriere architettoniche», conclude Tomirotti.
Disabilità e lavoro: la situazione in Italia
La terminologia sportiva viene spesso adottata anche nel contesto lavorativo, evidenziando analogie tra i due mondi. Termini come team, goal e concorrenti trovano spazio in entrambe le realtà. Nel lavoro, il team rappresenta un gruppo di persone che collaborano per un obiettivo comune, simile a una squadra sportiva. I goal, ossia gli obiettivi da raggiungere, guidano l’azione e la strategia, mentre i concorrenti sono i rivali da superare. Così come nello sport, anche nel mondo del lavoro le persone con disabilità affrontano sfide significative, sintomo di un contesto che ancora fatica ad essere sufficientemente inclusivo.
Una situazione confermata anche dai dati occupazionali delle persone disabili in Italia. Secondo le indagini ISTAT, nel 2024 di circa 3 milioni di persone diversamente abili, solo il 32,5% (nella fascia d’età 15-64 anni) risulta occupata, a fronte di una media nazionale del 58,9%. Il 20% delle persone con disabilità è in cerca di lavoro, una percentuale quasi doppia rispetto all’11,3% della popolazione senza disabilità. Grazie alla legge 68/99, la partecipazione lavorativa delle persone disabili è aumentata dal 40,2% del 2011 al 52% nel 2022, ma resta critica per le fasce più mature (45-64 anni), dove il 62,2% è disoccupato. L’esclusione lavorativa è legata anche ai bassi livelli di istruzione: il 57,6% ha solo la licenza media, il 35% è diplomato e solo il 7,4% ha una laurea.
Ma proprio in riferimento alla legge 68/99, Tomirotti mette in guardia sulla fragilità della norma, che permette spesso ai datori di lavoro di evitare l’assunzione diretta in azienda, anche sottoponendosi al pagamento delle sanzioni previste dalla stessa legge: «Assumere una persona con disabilità viene contestualizzato come una fatica per l’azienda – prosegue Tomirotti -, per i datori di lavoro questo “abbassa” il concetto di performance lavorativa secondo gli stereotipi, portando così a non assumere. Grazie alla convenzione ex articolo 14 della legge 68, le assunzioni non avvengono direttamente in azienda, ma permettono alle aziende di fornire contributi ad enti del terzo settore perché facciano lavorare persone con disabilità, delegando il problema».
Per invertire questa tendenza, veniamo infine alle soluzioni necessarie, che coinvolgono sia le istituzioni che la società. Come spiega Tomirotti, «è necessario colmare il vuoto normativo. Avere una totale disconnessione tra la normativa e la realtà delle istituzioni è un problema molto grave. Prima di tutto, però, è necessario partire dal fattore culturale, pretendendo un’evoluzione dei media e del loro rapporto con questi temi».