Perché i laureati italiani emigrano? Le risposte in un report di Intesa Sanpaolo

Considerando l’espatrio dei giovani laureati italiani una componente della nuova geografia del lavoro e, di conseguenza, un impoverimento netto del mercato del lavoro domestico rispetto alle competenze innovative e alle alte professionalità, risulta di estremo interesse una eccellente ricerca presentata al Bo, sede dell’Università di Padova, il 30 gennaio scorso e condotta da Anna Maria Moressa dell’Ufficio Studi di Intesa Sanpaolo. Ora è disponibile in forma più estesa nel Rapporto Economia e Finanza dei distretti industriali, n. 16, 2024, il cui settimo capitolo si intitola significativamente “Perché i laureati italiani emigrano?”.

I dati oggettivi

Il fenomeno migratorio in uscita è addizionale all’inverno demografico, al fatto che la media di laureati nella fascia 25-39 anni in Italia è al 29,2% a fronte di una media Unione Europea del 44,7%, che gli immigrati in Italia si laureano molto meno degli italiani (13,9% contro il 34,4%) e che la mobilità internazionale in entrata è estremamente più ridotta di quella in uscita. Se a questo aggiungiamo che la quota di laureati STEM italiani che lavorano all’estero è tre punti percentuali sopra la media del totale dei laureati, capiamo che i numeri descrivono processi tendenziali che convergono su un verdetto impietoso: l’impoverimento del mercato del lavoro domestico rispetto a quelli che sinteticamente definiamo “talenti” è destinato a crescere.

Le motivazioni soggettive

Oltre i numeri generali vorremmo soffermarci sulla parte qualitativa che documenta la ricercatrice, un questionario somministrato a un campione di 139 expat, perché fornisce una serie di spunti formidabili sui motivi che sono alla base dell’espatrio e su possibili strategie per invertire la tendenza. Di questi aspetti, che chiamano in causa le istituzioni, le imprese e le Università di casa nostra si è parlato troppo poco, indulgendo a una connotazione lamentosa del discorso pubblico su questo problema.

Un aspetto importante è quello delle esperienze di lavoro durante il percorso universitario. Ebbene, la metà dei laureati STEM expat non aveva avuto nessuna esperienza lavorativa in Italia e un quarto aveva avuto esperienze negative. È un dato drammatico. La prima enorme frattura tra universitari e mercato del lavoro qualificato si manifesta in Italia. La ricercatrice annota giustamente: “Tale evidenza stimola una riflessione importante sulla necessità di creare nuove modalità di stage e maggiore interazione tra gli studenti universitari e il mondo industriale ed economico del territorio in cui sono inseriti i poli universitari”.

Aumentare l’offerta verso i talenti esteri

Un altro elemento che caratterizza il percorso expat dei laureati STEM è di aver in larga parte frequentato durante gli studi uno stage o un Erasmus all’estero. E più è bassa l’età dei laureati, più il cursus è segnato dalla mobilità. Non solo, ma i laureati che emigrano sono anche i migliori, certificando una alto voto di laurea (69,1%) rispetto alla media generale. Se ne deduce che le Università italiane che vogliono aumentare il tasso di attrattività internazionale devono incrementare l’offerta di Erasmus, Master e corsi in lingua inglese e “di far sì che le tesi di laurea possano essere sviluppate presso le imprese del territorio”.

Se spostiamo i riflettori sugli sbocchi lavorativi all’estero, i laureati sono fortemente assorbiti – tre su quattro – da imprese con più di 1.000 dipendenti e i sistemi di reclutamento più accreditati sono le piattaforme come Linkedin, utilizzata dal 100%, e un’ibridazione con un passa parola rispetto a modalità di impiego. Poi, lo sappiamo, le motivazioni di lavorare all’estero sono le opportunità di carriera, la valorizzazione del merito, la maggiore remunerazione; a ridosso la possibilità di specializzazione avanzata, la formazione continua e la flessibilità lavorativa.

Il Rapporto è dedicato all’economia dei distretti industriali e ai poli tecnologici, pertanto sintetizza le conclusioni sul proprio focus di analisi: “La ricerca mette in luce come in molti casi ci sia una distanza tra il mondo universitario e le specializzazioni distrettuali locali, al punto che i giovani conoscono ancora troppo poco le straordinarie opportunità offerte dalle tante eccellenze produttive presenti sul territorio, attrattive non solo per i livelli tecnologici e di transizione digitale raggiunti, ma anche per i nuovi modelli introdotti di gestione del capitale umano in termini di welfare, l’inclusione e la valorizzazione dei talenti”.

Se la ricerca accredita ricette chiarissime per un’“Agenda della reversibilità del processo di espatrio”, essa interroga frontalmente istituzioni, imprese, università e rappresentanze.

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